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Archive for febbraio 2016

petaloso

I miei studenti mi hanno interrogata. Intorno a “petaloso“.

Si sono divisi in due scuole di pensiero, richiedendo la mia collocazione.

Mi piace/non mi piace, modalità Facebook. Modalità primaria, che non contempla né posizioni intermedie (tertium non datur), né chiose critiche.

E’ stata l’occasione montaliana per addentrarci nei “boschi critici”, quelli che permettono di evitare “le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede“.

Cosa rende particolare questo neologismo? La discrasia tra significato e significante. Il significato infatti appare poca cosa, risultando quasi tautologico: è “petaloso” ciò che “tanti petali ha o mostra”, assumendo forse nelle metafore più consistenza. Si potrà quindi dire “la questione appare petalosa”, ovvero “con aspetti multipli da dirimere”. Oppure, “quella bottega è davvero petalosa” per dire che la stessa vende “molti manufatti”, quasi sicuramente “belli e colorati”.

Ma “petaloso” gioca tutte le sue carte, ops petali, sul suono che produce, che rende lo stesso “coccoloso”, “armonioso”, “fantasioso”. Musicalmente piacevole. Quindi potenzialmente poetico.

Forse un giorno leggeremo in una lirica un endecasillabo di tal sorta: “Era un tramonto a tratti petaloso“. Vedendo così un cielo con stralci di nubi aranciate da un sole in declino.

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Di Umberto Eco ci rimane la mole immensa, colta e immaginifica della sua opera. Davvero “Opera aperta“, come aveva intitolato un suo saggio.

So già che continuerò a frequentare i suoi libri, tornandoci, rivisitandoli, diventando “Lector in fabula“, come acutamente analizzò Eco in un altro suo lavoro.

Ma nelle giornate di pioggia (non quella buona che placa e dilava) per farmi luce il mio gesto sarà aprire una sua “bustina di minerva“, la rubrica trentennale del semiologo sul settimanale “L’Espresso“. Quelle bustine di fiammiferi, in cui la dea non va scomodata se non come amuleto feticcio, diventeranno il mio amuleto di orientamento.

E capirò allora, come diceva Montale, che “il tenue bagliore strofinatolaggiù non era quello di un fiammifero“.

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umbertoeco

Ne “Il secondo diario minimo” Umberto Eco costruisce uno dei suoi divertissement, immaginando possibili risposte di filosofi, eroi, artisti et affini alla semplice domanda che poniamo incontrando qualcuno, “Come va?“.

Ecco alcune di queste, per ricordarlo nella sua arguzia e levità:

-Icaro: “Uno schianto

-Ulisse: “Siamo a cavallo

-Omero: “Me la vedo nera

-Pitagora: “Tutto quadra

-Socrate: “Non so

-Noè: “Guardi che mare

-Gesù: “Sopravvivo

-Giuda: “Al bacio

-Erasmo: “Bene da matti

-Galileo: “Gira bene

-Darwin: “Ci si adatta

-Beethoven: “Non mi sento bene

-Bellini: “Secondo la norma

-Dracula: “Sono in vena

-D’Annunzio: “Va che è un piacere

-Pirandello: “Secondo chi?

-Picasso: “Va a periodi

-Agatha Christie: “Indovini

-Alice: “Una meraviglia

-Spielberg: “Bene, E.T.?

Ps: Alla stessa domanda “Come va?“, forse il Professor Umberto Eco risponderebbe: “Va, va, va …“.

Può la terra non essergli lieve?

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umberto-eco1

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.” – “La rosa che era (ora) esiste solo nel nome, noi possediamo solo nomi nudi.” Così si conclude quel long seller internazionale, da numeri vertiginosi, che è il romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco, semiologo, filosofo, intellettuale. Tra i più acuti del nostro tempo. Che ora ci lascia di sé sguarniti.

Il “mio” Umberto Eco è quello, come tutti, de “Il nome della rosa“, letto da ragazza, non capendo proprio l’intero, ma percependo la parte per il tutto, lezione a cui mi affezionai ben presto. Il mio culto per il Medioevo amanuense, segreto, sapienziale ebbe forse origine lì. In quel latino disseminato per la trama avvincente che mi costringeva a ripetute soste. Diventando così adepta della “ri-flessione” più che della “flessione”. Abituandomi a pensare intorno ai nomi delle cose. E alle loro conseguenze.

Poi il “mio” Eco divenne una “mappa per il tesoro”, e lavorare alla tesi di laurea con il suo “Come si fa una tesi di laurea“, potente “navigatore” ante litteram, mi fece provare piacere, denso, per il lavoro di ricerca. Tutto stava, ancora una volta, nella “parola”. Quel “fa” del titolo, invece di un più scontato “scrive“, mi condusse al territorio del “fare” antico in cui c’era tutta la minimalia dell’artigiano che costruisce.

Da grande ho amato e amo del Professor Eco l’attitudine, innata e sublime, al gioco linguistico, al calembour, al pastiche, al nonsense. Cercando quel divertissement, lieve e alto, ironico e sapienziale, in cui nulla appare utile, ma tutto palesemente futile. Eppure umanamente necessario per sopravvivere e comprendere. Come quella sua lectio, davvero magistrale, intorno al “Tu, Lei, la memoria e l’insulto“, di pochi mesi or sono, in cui connette i “pronomi di cortesia” con certe risposte date ai quiz televisivi, leggendo, ancora una volta “sapientemente”, il mondo.

Per Umberto Eco mi viene naturale usare la parola “sapiente”, colui che non solo ha “sapere” ma anche “sapore”, l’uomo cioè “che ha buon naso” e “investiga”, “percepisce con gusto” e “comprende”, “è saggio”.

Grazie Professor Eco per la Sua lezione di “sapidità”. I Suoi libri, come diceva Lei della lettura, ci allungheranno la vita. Con “sale”, quanto basta.

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Si dice che il Festival di Sanremo sia da sempre la cartina al tornasole del Paese Italia.

Che dia cioè una fotografia e un’indicazione di quale sia il passo dello Stivale.

E allora il barometro cosa segna per l’edizione numero 66 appena conclusa?

Per cominciare indica che l’arcobaleno è per ora più un augurio futuribile che una realtà immediata (e i toni accesi della discussione odierna in Aula lo certificano).

Che le donne, quando portatrici di talento ed ironia (leggi Virginia Raffaele), sono una vera forza della natura. Non da arginare.

Che tutti noi restiamo alquanto addormentati, tanto che un energico “Wake up” (del rapper Rocco Hunt) ci sollecita al massimo un battito di ciglia. La sveglia resta ancora stabile su Off.

Che un gruppo storico come gli “Stadio” (nel loro Dna Lucio Dalla e indimenticabili colonne sonore) può ricevere infine un riconoscimento ufficiale e popolare. Pur in un’epoca di rottamazione. E forse anche per questo motivo passano la mano, per la partecipazione all’Eurovision Song Contest, alla giovane Francesca Michielin. Rientrando così nel mood “largo ai giovani”.

Ma soprattutto il barometro sanremese segnala che l’indice di rassegnazione italiano volge, purtroppo, verso l’alto. Sottolineando che ci siamo talmente abituati al malaffare e al malandare, che non ci resta che pregare, con un “Amen” finale e liberatorio come ci suggerisce Francesco Gabbani, il vincitore, meritatissimo, delle Nuove Proposte, già definito il nuovo Rino Gaetano:

E allora avanti popolo / che spera in un miracolo / elaboriamo il lutto con un Amen.

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Alexia Molino "Quando siete felici, fateci caso" - 2015

Alexia Molino “Quando siete felici, fateci caso” – 2015

Quando siete felici, fateci caso” recita un libro dello scrittore tedesco Kurt Vonnegut.

Davanti a questo titolo ho rivisto il tuo sguardo, limpido e gioioso, di fronte alle occasioni di felicità.

Ti soffermavi, appunto. Con attenzione e godimento. Cogliendo il momento buono. Assaporandolo.

Insegnandomi così il senso della pausa felice e consapevole.

Con il cuore che racconta alla testa quella euforica percezione, e la testa che la irradia con gratitudine al cosmo. E in quell’attimo, breve certo, tutto si fa “più”.

Grazie anche per questo, papà Sergio.

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Jack Vettriano - "Back where you belong" (1996)

Jack Vettriano – “Back where you belong” (1996)

Lontananza. Ritorno. Felicità. Anche questo è l’amore.

A volte però con qualche dubbio. E con le domande di sempre intorno all’amore.

Io ti amo? Non so se ti amo. / Tu mi ami? Non so se ti amo.

Come canta, spopolando in radio e in rete, il rapper Maître Gims con la sua “Est-ce que tu m’aimes ?“, già disco di platino.

Ah, l’amour

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ezio-bosso-pianoforte

Il palco del Festival di Sanremo si è illuminato di una grazia rara.

Quella della musica talentuosa del pianista e direttore d’orchestra Ezio Bosso.

Il Maestro ha incantato attraverso le sue note, magiche e visive.

E ha commosso con le sue parole e il suo sguardo. Felice, nonostante.

Lezione preziosa. E leggera.

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Già Duca Bianco, ora Blackstar.

Ultima trasformazione.

Resa infinita da un Tempo ormai fermo, divenuta immortale per un Suono sublime.

Tale perché proiettato non solo avanti, ma Oltre. Come solo uno Starman.

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Paul Cézanne “Pierrot and Harlequin (Mardi Gras)” – 1888

In questo tempo convulso e malmenato che viviamo, in cui le maschere sono state erette ad abito di sistema, quale senso assume ancora il Carnevale?

Forse ci può essere bussola la domanda-riflessione di Fernando Pessoa: “Quante maschere e sottomaschere noi indossiamo / Sul nostro contenitore dell’anima, così quando, / Se per un mero gioco, l’anima stessa si smaschera, / Sa d’aver tolto l’ultima e aver mostrato il volto?

Carnem levare” diventa allora, e infine e finalmente, sollevare l’ultimo lembo dal nostro più intimo nembo.

Con un autentico e davvero rivoluzionario sovvertimento dei ruoli.

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