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La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto” diceva Albert Einstein.

Proprio “Vita immaginaria” è il tema della XXXVI edizione del Salone del Libro di Torino. E il libro è uno degli strumenti più semplici per immaginare, muovendo così, come ricorda Natalia Ginzburg, la vita creativa e anticipando a volte la vita reale.

È davvero giunto il momento di investire di più intorno alla scrittura e alla sua divulgazione. Sottraendo finalmente risorse all’ homo bellicosus. Forse renderemmo concreta l’intuizione di Virginia Woolf: “Strano come il potere creativo porti immediatamente l’intero universo all’ordine”.

Paul Auster, uno dei miei scrittori bussola.

Per la sua scrittura, incisiva come un bisturi, per le sue storie, tra scelte e caso e destino. Un gigante della letteratura, uno dei maggiori rappresentanti del postmodernismo. Che congedandosi dal mondo secolare ci lascia un patrimonio fulgido di parole, con quel suo modo particolare di raccontare.

Lo scrittore di Brooklyn divenne famoso con la “Trilogia di New York”. La solitudine, il caso e la Grande Mela. Con un incipit famoso: “Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui.”

A seguire numerose altre storie, tra cui il celebre “4 3 2 1”, intorno alle possibili vite di una persona, attraverso la porta girevole della fanciullezza, da Auster definita “un’età malleabile in cui ogni scultura di sé è ancora possibile”.

E poi riflessioni profondissime intorno a quanto siamo (“Notizie dall’interno”) o sui cambiamenti del nostro corpo (“Diario d’inverno”).

Continuo a pensarlo nella sua casa di Brooklyn, schivo e solitario, intento a scrivere una storia. Come diceva lui, “scrivere è come vivere all’interno di un sogno e cercare di capirne il significato“.

Sarà difficile fare a meno dei tuoi “sogni”, Paul Auster. Ma grazie per averli condivisi.

Giovanni Sottocornola, “Muratore” – 1891

“Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere un’etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina, che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.”

“I giusti” di Jorge Luis Borges

Il 25 aprile è un giorno che profuma di libertà, grazie a chi ha lottato per liberare l’Italia dal nazifascismo. Quindi un ricordo imperituro e grato a tutti quei giovani antifascisti che, con coraggio e resistenza, ci hanno consegnato la pietra d’angolo della nostra democrazia.

Oggi cade anche il cinquantesimo anniversario della Liberazione del Portogallo dalla dittatura di Salazar, la più lunga in Europa, terminata il 25 aprile 1974 con la “Rivoluzione dei garofani”. Furono infatti i fiori rossi donati da cittadini e cittadine ai soldati giunti nella capitale, e da questi inseriti nelle canne dei fucili, a diventare il simbolo di un’azione militare trasformativa ma pacifica.

«Questa è l’alba che stavo aspettando / Il primo giorno intero e pulito / In cui emergiamo dalla notte e dal silenzio. / E liberi abitiamo la sostanza del tempo», scrisse Sophia de Mello Breyner Andresen nella sua poesia 25 de Abril.

La sensazione di ogni Paese e di ogni uomo quando torna a respirare Libertà.

Siamo alle solite.

In avvicinamento all’anniversario del 25 aprile sembra sempre più difficile ricordare un punto cardine della nostra Costituzione, l’antifascismo. Su questa fondamentale pietra d’angolo si è costruito l’edificio democratico del nostro Paese. Ricordarlo è un dovere civico.

Eppure allo scrittore Antonio Scurati è stata impedita la lettura a Raitre del suo monologo a riguardo, partendo dall’assassinio fascista di Giacomo Matteotti, 10 giugno 1924.

Il monologo è quello sottostante. Meditiamo su quanto accade. Perché, parafrasando Benedetto Croce, non possiamo non dirci antifascisti. Anche quando, nel dirci orgogliosamente tali, qualcuno intorno a noi si fastidia.

Come se noi umani dovessimo, di forza, provare fino a che punto possiamo spingerci prima di cadere. Con quella insita e pericolosa spinta verso l’annientamento. Nostro e degli altri.

Come se avessimo dimenticato che, oltre il precipizio, non si torna.

Così in Ucraina, con i droni kamikaze a sfiorare la centrale nucleare di Zaporizhzhia.

Così in Israele-Palestina-Iran, con gli attanti Netanyahu-Hamas-Ali Khamenei, nel gioco mortale ad alzare l’asticella fino alla deflagrazione senza ritorno.

E triste rassegnazione in tutti noi nel constatare che i cosiddetti “potenti” della Terra sembrano non essere affatto consapevoli di dove stanno trascinando l’umanità intera. Costretta, come diceva Einstein, ad usare di nuovo pietra e fionda.

Così non sia.

Il museo del Novecento di Milano, ricavato nel Palazzo dell’Arengario su progetto di Italo Rota e Fabio Fornasari. (ph. Giovanna Silva)

Artisti italiani di peso ci hanno lasciato in questi giorni.

L’architetto Italo Rota, maestro nell’uso del colore e della luce per creare spazio, senza peso o ingombro. Come si vede nel suo “Museo del Novecento” di Milano.

L’attrice Paola Gassman, in coppia da una vita, in scena e fuori, col suo amatissimo Ugo (Pagliai).

Lo stilista Roberto Cavalli. Fiorentinità, estro, culto del bello e del lavoro manuale.

Tristezza. Seppur mitigata dal fatto che l’arte comunque resta.

 

Questa poltrona rossa, cicciosa, avvolgente e femminile è la famosa “Up” dell’architetto Gaetano Pesce, uno dei più famosi designer italiani nel mondo, ed è un modo per ricordarlo.

Le sue opere sono al “MoMa” e al “Met” a New York, al “Victoria and Albert Museum” di Londra, al “Louvre” di Parigi. Per non parlare dei celebri grattacieli di Manhattan e San Paolo in Brasile.

Una delle idee geniali di Gaetano Pesce è stato l’utilizzo innovativo della resina, un materiale industriale, per creare opere d’arte e design uniche, tra cui la celeberrima poltrona “Up, da lui disegnata negli anni Sessanta citando il corpo di una donna. È stato “il primo oggetto del design con significato politico“, ha detto lo stesso artista lo scorso anno ricevendo il prestigioso Compasso d’Oro ADI per la sua carriera.

Si tratta infatti di un ampio grembo materno che può ricordare le statue votive delle preistoriche dee della fertilità. L’originalità sta comunque in quella sfera che funge da pouf, legata al corpo della poltrona, che rimanda all’idea del prigioniero: la donna con la palla al piede, vittima di pregiudizi, arretratezza e violenza. Ma per il designer “questo è il momento delle donne: flessibili, curiose, energiche. La donna ha una capacità straordinaria di dirigere industrie e Paesi. Non ha più la palla al piede. Mentre il maschio è immobile”. 

Mancherà al mondo la genialità di Gaetano Pesce al servizio della bellezza e dell’attenzione ai mutamenti.

Buona Pasqua

Affettuosi auguri di una Pasqua Serena e fiorita a tutti i viaggiatori di espress451.

Duccio di Boninsegna – “Ultima Cena” (1308-1311)

Per i cristiani il “Giovedì Santo” si celebra l’ “Ultima Cena” di Gesù Cristo.

E a tal proposito il pensiero corre immediato alla celebrazione dell’Eucarestia e a quell’affannosa richiesta degli apostoli nel sapere chi di loro avrebbe di lì a poco tradito il Maestro.

Ma intorno a Quel Desco, oltre all’Amore, c’è, seppur quasi nascosto, il Servizio. Parola che appare desueta, sul calco della “servitù”, ovvero il “porsi a disposizione” di altri o di una causa.

Chi fa più una tal cosa, appunto desueta? Eppure l’esempio, nobile e generoso, del “porsi a servizio” è quanto mai attuale, sebbene di rado praticato. Ma che potenza quando arriva. Si pensi al sacrificio di Navalny. O a quei ragazzi lavoratori del Crocus City Hall di Mosca che hanno portato in salvo diverse persone nel recente attentato terroristico. O a quelli che nell’ombra, in silenzio, porgono una mano all’altro.

Forse, ripensando al senso anche umano di Quel Desco, non tutto è perso.