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Posts Tagged ‘terremoto’

Un’ecatombe. Da magnitudo 7,8 scala Richter. Sull’incrocio di tre faglie, tra Turchia e Siria.

Edifici sbriciolati. Interi villaggi rasi al suolo. Migliaia di vittime. L’Anatolia spostata di tre metri. Le devastanti onde sismiche registrate in tutto il mondo.

Siamo piccoli e vulnerabili noi umani. Eppure lo dimentichiamo. Quasi sempre.

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Sta diventando il nostro “abito” quotidiano, il nostro “modo d’essere”. Accettare i numeri gravi delle giornaliere perdite di vite umane per SarsCov2. Inquietante e doloroso.

Eppure ci stiamo “abituando”. Come se soffermarci troppo, prendendone piena consapevolezza, non fosse possibile. Per preservarci, per sopravvivere. Come accade in guerra.

Vengono in mente le parole usate da Moravia nel suo romanzo “La ciociara”: “Questo per dire che ci si abitua a tutto e che la guerra è proprio un’abitudine e che quello che ci cambia non sono i fatti straordinari che avvengono una volta tanto ma proprio quest’abituarsi, che indica, appunto, che accettiamo quello che ci succede e non ci ribelliamo più.

Noi, che piangiamo sconvolti le vittime di un terremoto, ci stiamo scordando le lacrime.

Un altro risvolto brutale, per nulla umano, di questa pandemia.

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Irpinia, ore 19.34 del 23 novembre 1980. La terra comincia a tremare per novanta infiniti secondi ad una magnitudo di 6,9 della scala Richter.

Fu l’Apocalisse. Tremila morti, novemila feriti, trecentomila sfollati. Paesi isolati per giorni, case inghiottite dalla terra, viadotti sbriciolati, frane ovunque. Soccorsi in ritardo, aiuti disorganizzati, ricostruzione lentissima. E il paesaggio, umano e geografico, sfregiato per sempre.

Una lezione dolorosa che obbligò il Paese, da allora, ad inventarsi la macchina della Protezione Civile. Che tante volte è stata messa in moto per i movimenti tellurici del nostro territorio. Come se avessimo compreso il modo, rapido ed efficiente, in cui muoversi dopo un evento catastrofico per portare soccorso. Senza mai imparare però a prenderci cura del territorio prima, con visione prospettica e azione concreta.

Vizio antico, purtroppo, del nostro Bel Paese.

 

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L’Aquila, 6 aprile 2009, ore 3.32.

La terra trema e l’esistenza si frantuma insieme agli edifici, lasciando sul campo 309 vite. Senza contare ottantamila persone senza casa e interi borghi abruzzesi quasi del tutto cancellati.

Oggi L’Aquila, a dieci anni di distanza, continua la sua ricostruzione. Lenta, faticosa, a tratti addirittura ferma, soprattutto quella pubblica. Quindi il paesaggio, seppure in parte ricucito, presenta ancora profonde lesioni, visivamente rappresentate da gru e ponteggi.

E poi c’è il paesaggio umano, con ferite indelebili, destini mutati e mutilati. Quella generazione di ragazze e ragazzi universitari che si è trovata divisa per sempre. Da un tramezzo, un’uscita serale, una semplice fatidica scelta.

Silente Spoon River aquilana.

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Non si associ alla tragedia di Rigopiano la parola fatalità. Bensì negligenza, imperizia, pressapochismo. E sottrazione dalle proprie responsabilità.

È vero che il destino cinico e baro distribuisce le sue carte con modalità umanamente incomprensibili, ma lì tempistica e lassismo erano al tavolo da gioco.

Rigopiano va però anche associato al coraggio e alla professionalità di quei Vigili del Fuoco che per giorni e notti lavorarono senza sosta e con speranza per sottrarre alla valanga più vite umane possibili. Purtroppo per 29 è stato impossibile. Al loro tributo è doveroso un rispettoso silenzio e il ricordo vivo di quel che è stato.

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Terremoto di Ischia, 28 luglio 1883

È diventato un modo di dire, “è successa una casamìcciola”. Per raccontare una grande confusione, un disastro. Quello che fece più di duemila vittime in seguito al terremoto ischitano del 28 luglio 1883.

Fra i sopravvissuti, per ore sotto le macerie, il diciassettenne Benedetto Croce in vacanza sull’isola di Ischia, dove perse i genitori e la sorella.

“Rinvenni a notte alta – scrisse poi il filosofo nel Contributo alla critica di me stesso del 1915 – e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane.”

Quel male di vivere di cui siamo spossatamente pregni.

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Heronymus Bosch - "La nave dei folli" (1494)

Heronymus Bosch – “La nave dei folli” (1494)

Un territorio sempre più sofferente il nostro. Che necessita di cure. A questo punto urgenti. Usando finalmente bene i soldi di tutti.

Eppure fino a poco tempo fa era tornata in auge l’idea folle del Ponte sullo Stretto.

E allora ci si chiede, mi chiedo, chi in veste pubblica e ad alta voce possa comunicare, di fronte ad un semplice esame di realtà, una tale sciocchezza. E la risposta, l’unica, che mi riesco a dare, è che solo i folli possono osare tanto.

E ripenso ai “folli”, appunto, del Medioevo, ascoltati solo per gioco da un pugno di spettatori nella piazza del paese.

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Perché la Natura chiede periodicamente un alto tributo umano?

Deve essere davvero fuori misura l’oltraggio che noi commettiamo.

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Risultati immagini per omran

Sembra l’immagine che più di tutte riassume un anno tanto disgraziato. Omran Daqnish, il bambino siriano estratto dalle macerie di Aleppo, è il volto dell’umanità nel 2016. Ovvero con lo sguardo perso di chi ha già visto troppo in termini di orrori e perdite.

Scenari di guerra in diverse parti del mondo, Siria in primis. Esodo epocale di uomini in fuga da bombardamenti e devastazioni e rappresaglie. Atti insensati di terrorismo in ogni dove, aeroporti, lungomari, mercatini. La terra che trema seminando morte e travasa acqua sottraendo vita. Gli uomini che, stanchi delle decisioni dei potenti, votano contro l’establishment. Brexit, Trump e il referendum italiano ne sono l’esempio più evidente. E il Novecento che chiude definitivamente le sue porte con la scomparsa di Fidel Castro.

Sballottati tra i marosi di un tempo storico veloce, insulso, violento, cerchiamo con affanno un qualche labile riferimento nei punti cardinali. Quelli che ti indicano un accenno di rotta. Ma anche quelli vengono meno. Un addio difficile a chi ci ha insegnato a dissacrare come Dario Fo, ai due Umberto maestri chi del dire, Eco, chi del curare, Veronesi. A chi ci ha regalato un modo di leggere il mondo come Ettore Scola, di recitarlo come Giorgio Albertazzi, di pensarlo come Marco Pannella. O di tenergli testa, come Muhammad Alì. E a chi ci aveva reso la Notte meno scura, come Eli Wiesel. O la giornata più leggera come Anna Marchesini o Paolo Poli. Con la musica, sul fondo, che a sua volta tace: David Bowie, Prince, Leonard Cohen, George Michael a lasciarsi sguarniti anche di note per l’anima.

Di tregua c’è necessità. Di pace c’è fame. Amen.

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Dopo l’ultima e peggiore scossa sismica di stamane in Centro Italia, della Basilica trecentesca di San Benedetto a Norcia è rimasta in piedi solo la facciata. Un danno gravissimo per il patrimonio artistico e per la testimonianza religiosa e temporale di quel sito. Un simbolo nella sua essenza, ma anche nel suo cedimento essendo San Benedetto da Norcia il santo patrono d’ Europa.

Possibile che il vecchio continente rischi nelle sue fondamenta, tra defezioni e muri, burocrazia e bilanci, respingimenti e crolli?

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