Come spiega il filosofo Mauro Carbone quel giorno di settembre ci siamo trovati a morire insieme, cioè a condividere uno shock collettivo in quanto testimoni oculari della morte di altri. È questa esperienza che va indagata e ed è da questa esperienza che bisogna ripartire, perché in fondo il fatto di “essere morti insieme” tiene al suo interno la possibilità stessa di essere vivi insieme, cioè di aprire uno spazio di condivisione collettiva a partire dalla quale la collettività stessa si ridefinisce.
Ciò è particolarmente utile per le generazioni future. Di modo che diventi possibile una necessaria memoria transgenerazionale.
Il FDNY Memorial è un tributo ai vigili del fuoco newyorkesi scomparsi nel tentativo di salvare vite dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Il monumento commemorativo, una lastra in bronzo di oltre sedici metri di lunghezza e due di altezza, si trova proprio di fronte al 9/11 Memorial, e raffigura le tragiche immagini degli attentati che portarono alla distruzione del World Trade Center.
Si vedono i vigili del fuoco nella loro instancabile ed eroica lotta per salvare le persone intrappolate negli edifici già colpiti e avvolti nel fumo. Alla base del bassorilievo l’elenco dei 343 pompieri che quel giorno persero la vita.
Ricordo che lo scorso anno, soffermandomi di fronte a questa scultura, sentii per frammenti l’incredulità, la tragedia, il dolore di quel luogo in quel giorno.
Anzi, in quella notte che scese su New York e il mondo intero.
Milano, Piazza Fontana, sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Sette chili di tritolo, 17 morti, 87 feriti.
Cominciano gli “anni di piombo”. E la loro terribile scia di sangue, tensione, mistero. Con depistaggi, omissis, segreti di Stato, processi infiniti, sentenze capovolte.
– Perché nessun caccia americano quella mattina si avvicinò agli aerei dirottati come previsto dalla prassi?
– Perché nessun capo della sicurezza aerea fu mai indagato né rimosso dal proprio incarico?
– Perché non si trovò assolutamente nulla dell’aereo caduto sul Pentagono, se non un buco d’entrata e uno di uscita?
– Perché solo una buca nel terreno e nessun rottame a testimoniare l’avvenuta caduta dell’aereo precipitato in Pennsylvania?
– Perché l’edificio numero 7 del World Trade Center crollò pur senza esser stato colpito da alcun aereo?
– Perché tutti e tre gli edifici del WTC caddero in verticale e tanto in fretta, senza rispettare le leggi della fisica e senza danneggiare gli edifici circostanti?
– Perché ancora tanti perché senza risposta?
Le famiglie delle quasi tremila vittime continuano a porre tali domande. Ma nessuno ha mai risposto loro. Né a tutti noi.
Un luogo sacro, di preghiera, è tale ad ogni latitudine, e sacrilego è qualsiasi atto violento perpetrato in tale luogo. Tanto più se preventivamente pensato per fare più vittime possibile, ovvero una strage.
E i fedeli musulmani uccisi venerdì scorso nella moschea egiziana di Bir al-Abed nella regione del Nord Sinai non sono diversi dai cristiani, dai buddisti, dagli ebrei, ovvero da chi è dedito alla preghiera in un luogo a tale atto preposto.
Ma allora perché così scarsa copertura mediatica alla riflessione sulla notizia e così tiepida compartecipazione di noi tutti a quel popolo?
E dire che forse proprio qui si gioca la possibilità di svolta, ovvero non un distinguo barbaro e primitivo tra religioni diverse, ma un bando morale tout court sugli atti terroristici, ovunque avvengano e chiunque colpiscano.
Tanto più quando la vittima sacrificale è la via religiosa moderata, quella che cerca il dialogo con gli altri fratelli, come il sufismo, la via mistica dell’Islam. Quella che è stata colpita in tale vile attentato. Che però non fermerà le danze rotanti dei dervisci e il loro modo pacifico di avvicinarsi all’Alto. Rispettando l’altro.
Barcellona è coacervo di lingue, etnie, mondo. Pensi a quei nastri di strada che sono le Ramblas e vedi nazionalità diverse, unite da infradito colorate e dalla bellezza cangiante della capitale catalana.
Quella bellezza che ha incantato Woody Allen e che ha regalato a tutti noi “Vichy Cristina Barcelona”, in cui i colori primari della città fanno compagnia ai sentimenti dei protagonisti. Insieme alle tessere mirabolanti di Mirò e alle vertigini impossibili di Gaudì. Nonché alla sua luce calda, mediterranea, seducente.
Atmosfera densa di una malìa che attrae frotte di studenti del programma Erasmus. Come Xavier, il protagonista di quel film cult, “L’appartamento spagnolo”, che ha fatto da volano per un’intera generazione, Erasmus appunto.
Ma Barcellona è anche teatro di scrittura preziosa e al contempo misteriosa. La polverosa libreria de “L’ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafón che avvolge con inquietudine una Barcellona decadente, l’ufficio demodé sulle Ramblas dell’investigatore ex agente Cia Pepe Carvalho di Manuel Vasquez Montalban, i bar anonimi in cui sosta e riflette, insieme al suo fidato Fermín, l’ispettore Petra Delicado di Alicia Gimenez Bartlett.
Per una serie di circostanze fortuite, tra cui un viaggio già pronto e annullato in partenza, non sono mai stata a Barcellona. Ma in realtà, Salgari insegna, ci sono già stata. Per quelle pagine, per quelle pellicole. E, non da ultimi, anche per i racconti di mia mamma che lì trascorse un periodo felice e spensierato.
Ecco perché adesso, dopo l’orrenda ferita che ha subíto, piango per Barcellona. E per il cammino lento, di vacanza, che ciascuno di noi può /poteva fare su quel nastro di strada.
Ancora una passeggiata famosa, in un pomeriggio d’estate.
Nizza torna prepotentemente in mente, con la sua promenade violata dagli uomini del terrore.
Questa volta è Barcellona e le sue note Ramblas, vicino a Plaza Catalunya e al colorato mercato della Boqueria.
Luoghi turistici, simboli che fanno eco. Ora ferite aperte. Con un pesante carico di vittime. Inconsapevoli, nel loro passeggiare, di essere attori in un teatro di guerra.
Sembra l’immagine che più di tutte riassume un anno tanto disgraziato. Omran Daqnish, il bambino siriano estratto dalle macerie di Aleppo, è il volto dell’umanità nel 2016. Ovvero con lo sguardo perso di chi ha già visto troppo in termini di orrori e perdite.
Scenari di guerra in diverse parti del mondo, Siria in primis. Esodo epocale di uomini in fuga da bombardamenti e devastazioni e rappresaglie. Atti insensati di terrorismo in ogni dove, aeroporti, lungomari, mercatini. La terra che trema seminando morte e travasa acqua sottraendo vita. Gli uomini che, stanchi delle decisioni dei potenti, votano contro l’establishment. Brexit, Trump e il referendum italiano ne sono l’esempio più evidente. E il Novecento che chiude definitivamente le sue porte con la scomparsa di Fidel Castro.
Sballottati tra i marosi di un tempo storico veloce, insulso, violento, cerchiamo con affanno un qualche labile riferimento nei punti cardinali. Quelli che ti indicano un accenno di rotta. Ma anche quelli vengono meno. Un addio difficile a chi ci ha insegnato a dissacrare come Dario Fo, ai due Umberto maestri chi del dire, Eco, chi del curare, Veronesi. A chi ci ha regalato un modo di leggere il mondo come Ettore Scola, di recitarlo come Giorgio Albertazzi, di pensarlo come Marco Pannella. O di tenergli testa, come Muhammad Alì. E a chi ci aveva reso la Notte meno scura, come Eli Wiesel. O la giornata più leggera come Anna Marchesini o Paolo Poli. Con la musica, sul fondo, che a sua volta tace: David Bowie, Prince, Leonard Cohen, George Michael a lasciarsi sguarniti anche di note per l’anima.