È diventato un modo di dire, “è successa una casamìcciola”. Per raccontare una grande confusione, un disastro. Quello che fece più di duemila vittime in seguito al terremoto ischitano del 28 luglio 1883.
Fra i sopravvissuti, per ore sotto le macerie, il diciassettenne Benedetto Croce in vacanza sull’isola di Ischia, dove perse i genitori e la sorella.
“Rinvenni a notte alta – scrisse poi il filosofo nel Contributo alla critica di me stesso del 1915 – e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane.”
Quel male di vivere di cui siamo spossatamente pregni.