“La casa è grande, antica, quasi nascosta in fondo a un viale di pini ora coperti dalla neve.
Fermo davanti al cancello di ferro battuto, l’uomo guarda a lungo la casa, prima di decidersi a fare un altro passo. Sono le prime ore del pomeriggio, ma l’aria è già scura, le ombre lunghe e fredde. Due finestre sono già illuminate, a pianterreno e al primo piano.
L’uomo è stanco. È vecchio. O almeno così gli dice il suo corpo. Ha camminato dalla stazione fin lì, stando attento a non scivolare sui marciapiedi gelati, fino a quella casa quasi in fondo al paese, appena prima delle colline e dei boschi che cingono le case come hanno sempre fatto.
Un tempo ha amato qualcuno, in quel posto. Un tempo in cui questo luogo sembrava diverso. Ricorda gli alberi, e nel ricordo i pini sono più alti di adesso. Ma le cose sembrano più grandi ai giovani, o quando le vedi per la prima volta.”
“L’anno dei dodici inverni” di Tullio Avoledo
Non conosco questo autore.
In questi giorni di freddo intenso sia le parole dell’incipit de ” La casa dei dodici inverni” sia il dipinto di Carrà avvolgono l’anima di soffici e sfumati pensieri onirici . Il richiamo ai pini , alla rivisitazione di un luogo in cui ha vissuto il protagonista in un tempo passato mi fanno ripensare a certi passi de “La luna e i falò” di Pavese , all’impatto con i luoghi della memoria che sono i medesimi, ma cambiati, diversi,: gli stessi boschi, lo stesso profilo dell’orizzonte, lo stesso scenario , ma evidentemente gli occhi dell’anima percepiscono aspetti prima ignoti, lente trasformazioni del passare del tempo , che inesorabile, altera tutto. Ma resta la parola e l’arte a fissare la memoria, la vita che fu :” io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi ….per sentire che il mio sangue, le mie ossa , il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza…” C. Pavese, “La luna e i falò”