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Archive for marzo 2012

E’ giusto che un Paese civile non faccia nulla per conservare testimonianze scritte di un passaggio duro e oscuro della propria Storia?

Vedere battere all’asta quei fogli “stellati” tristemente famosi come preziosi e monetizzabili francobolli può provocare indifferenza, indignazione, o scardinamento.

Ecco, io mi sono sentita coi “cardini” civili sottosopra, come se non solo la Storia ma anche la sua conservazione fosse appannaggio di una sola parte del mondo, quella ricca.

Che faccia notizia chi si è aggiudicato il “pacchetto”, Marcello Dell’Utri per conto dell’istituzione privata “La Biblioteca del Senato”, è un altro “gioco delle parti”. Il fatto che lo Stato non abbia fatto nulla per aggiudicarselo può fare meno audience, ma non meno riflessione. Che poi la Casa d’Aste Bolaffi l’abbia posto sul mercato passa forse inosservato, ma non senza peccato.

Tornano in mente le parole scritte da Aldo Moro durante la sua prigionia, circa “le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. […] Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale.

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Di  che si tratta? Guardi, disse lui, non è proprio un cocktail e neanche un longdrink, diciamo che è una via di mezzo, è una cosa di mia invenzione, si chiama ‘Janelas Verdes Dream’. Il nome è proprio ben trovato, dissi io, quali sono gli ingredienti? Guardi, caro amico, disse confidenzialmente il Barman del Museo di Arte Antica, in genere non è mia abitudine rivelare gli ingredienti della mia cucina, è un segreto professionale, ma lei è straniero e glieli dico, sono tre quarti di vodka, un quarto di succo di limone e un cucchiaio di sciroppo di menta piperita, si mette il tutto nello shaker con tre cubetti di ghiaccio, si agita fino a farsi dolere il braccio e prima di servire si toglie il ghiaccio, la vodka e il succo di limone legano perfettamente, e lo sciroppo di menta piperita, oltre a dargli il profumo, gli dà quel colore verde che è necessario per via del nome, non so se mi capisce: verde, ‘Janelas Verdes’, è fondamentale. Bene, dissi io, mi sa che voglio proprio provarlo il ‘Janelas Verdes Dream’, mi ha proprio stuzzicato.

Antonio Tabucchi, da “Requiem”.

Ps: forse è per questo che tanto amo la scrittura di Tabucchi, perché ha la capacità rara di prestidigitare la tua immaginazione di lettore fino a materializzare di fronte a tuoi occhi l’oggetto di cui sta raccontando. A quel punto anche il gusto di un drink ti scende dentro reale, con la sua frescura verde. Grazie, Antonio.

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“Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di metter su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo.”

“Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi

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Amo da sempre la letteratura perché, come diceva Antonio Tabucchi, è ” qualcosa che coinvolge i desideri, i sogni e la fantasia “.

Ricordo quanto mi colpì, anni fa, il titolo di un suo romanzo, “La testa perduta di Damasco Monteiro”, con quella testa che sembra vagare in ogni dove.

Divenni sua assidua lettrice incontrando ancora un Monteiro, questa volta un Monteiro Rossi, in quel libro di rinascita che è “Sostiene Pereira”, in cui il ripetitivo astio per l’intera storia, appunto sostenendoti.

Mi incuriosì poi molto quanto Tabucchi ha pensato e tradotto e scritto Fernando Pessoa, al punto da averne segnato l’amore per Lisbona. E così iniziai, per interposto scrittore, ad amare gli eteronimi in cui scriviamo Pessoa e quella città così bianca e decadente che è Lisboa.

Quando arriva a Lisbona, il suo “Requiem”, prezioso e incantato viatico per aggirarsi senza tempo tra i vicoli abbaglianti della città del Fado.

I suoi ultimi libri mi sono poi venuti incontro come segni invitanti per il mio percorso, da “Il tempo invecchiato in fretta” a “Viaggi e altri viaggi”. Con quella sua scrittura unica, immaginifica e incantatrice sempre.

Stavo per avviarmi alla scoperta di quel suo piccolo libretto edito dalla Sellerio, “Racconti con figure”, in cui ogni storia è preceduta da un quadro che ne è spunto o pretesto. Leggerlo ora assumerà una sfumatura diversa. Mi verrà più spesso in mente una frase del suo romanzo: ” Le persone sono lontane quando ci sono accanto, figurarsi quando sono lontane davvero.

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“CLARE: E’ dura rimanere indietro. Aspetto Henry senza sapere dov’è e se sta bene. E’ dura essere quella che rimane. Mi tengo occupata. Così il tempo passa più veloce. Vado a dormire da sola e mi sveglio da sola . Faccio passeggiate. Lavoro fino a stancarmi. Osservo il vento giocare con la robaccia rimasta sepolta tutto l’inverno sotto la neve. Finché non ci si pensa sembra semplice. Perché l’assenza intensifica l’amore?

Tanto tempo fa, quando gli uomini andavano per mare, le donne li aspettavano sulla spiaggia, scrutavano l’orizzonte in cerca della piccola imbarcazione. Adesso io aspetto Henry. Lui scompare improvviso e involontariamente. Io lo aspetto. Ogni minuto di attesa dura un anno, un’eternità. Ogni minuto scorre lento, trasparente come vetro. Attraverso ogni minuto vedo un’infinità di minuti in fila, in attesa. Perché se ne va dove io non posso seguirlo?”

“La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” di Audrey Niffenegger.

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Mark Hanham, Le Flaneur Paris Street Scen

Ho voglia di ‘flânerie’.

Sarà la primavera che si sta insinuando sonnacchiosa sotto pelle cantando leggere melodie al cuore, con quell’aria dolce che a breve sarà già prepotente e troppo calda. Sarà che abbiamo voglia, in tanta pesantezza dell’esistere, di lasciarci andare senza meta quasi gonfi di elio come colorati palloncini. Sarà che ogni tanto è salutare non avere le idee tanto precise su cosa si sta facendo.

Sarà non lo so cosa, ma ho voglia di ‘flânerie’. Semplice, svagata, antica. Quella “passeggiata” inventata da Baudelaire, quella del gentiluomo che vaga per le vie della città, diventando così un ‘flâneur’, cioè uno consapevole del suo comportamento pigro e privo di urgenza, uno che, usando le parole del poeta, “porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi“. E che osserva, estatico ed estetico il mondo, piegandolo, infine e finalmente, al suo tempo.

Sì. Ho propria voglia di ‘flânerie’.

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Oggi è il primo giorno di primavera, nonché la giornata mondiale della poesia.

Ma oggi, 21 marzo, è anche il compleanno di “espress451”!

Grazie ai “viaggiatori” di questo “treno”, che continuano a scegliere questo mezzo per condividere le idee sul mondo del “macchinista”. Come spesso accade negli “scompartimenti” si fanno conoscenze, si sale e si scende, tra pendolari ci si ritrova, nascono anche amicizie di viaggio in cui reciproca stima e affettuosa compagnia si prendono a braccetto discutendo su quanto accade, passandosi tra una stazione e l’altra un libro, una ricetta, una parola. Avendo in comune una riflessione, un luogo, una pausa. Cioè, condividendo pietre di uno stesso cammino.

Finora “espress451” ha viaggiato ogni giorno, senza fermarsi, perché il suo “macchinista” voleva sperimentare la disciplina della scrittura giornaliera. Ora, dopo un anno, il “macchinista”, in ricerca continua, pensa alla necessità di un “treno” che faccia della “sosta in stazione” un momento di ulteriore indagine, senza affrettarsi nell’arrivo alla fermata successiva come da “orario su tabellone”. E forse certe “stazioni” meritano un pernottamento… Farlo coi “viaggiatori” di questo “treno” sarà per me una nuova sfida, insieme ad un antico piacere.

Che la primavera trasmetta a voi tutti la colorata leggerezza dei fiori di ciliegio, con quella delicata poesia che portano inscritto nella loro magica fioritura. Buon viaggio!

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Quando la primavera è alle porte spesso ci si ritrova stanchi e con scarsa vitalità, come se il “peso del cappotto invernale” avesse svolto in modo troppo serio il proprio dovere. Allora c’è bisogno di energia, e il suo colore non può che essere quello giallo, che rimanda alla luce e alla forza.

E’ tempo insomma di uno zabajone, quella dolce e spumosa crema a base di uova, zucchero e vino liquoroso. Tra l’altro la sua preparazione è alquanto veloce, e gli occhi possono godere di una tavolozza di colori che dal giallo senape dei tuorli vira, con l’inserzione dello zucchero, al giallo limone, per diventare poi giallo pergamena con l’aggiunta del liquore marsala. A questo punto il composto aspetta il passaggio a bagnomaria e poi si aprono le spumose danze per le papille gustative…

Lentamente ma inesorabilmente si sente rifluire l’energia interna, come se quel “giallo” avesse colorato di forza le nostre interne pareti.

Curiose e varie le origini di quel nome. Dal Capitano Giovanni Baglioni, detto “Zvàn Bajòun”, che nel ‘500 a corto di viveri mandò i suoi soldati a cercarne, e questi tornarono con uova, vino e zucchero, dal cui miscuglio nacque la crema che prese il suo nome “zambajoun”, poi zabajone e infine zabaione. Oppure da Giovanni de Baylon, patrono dei pasticceri torinesi, che lo inventò a Torino nel XVI secolo e che lo utilizzava come ricostituente per chi accusava debolezza. Per un’altra versione la crema è di Venezia dove nel XVII secolo si preparava una bevanda proveniente dalla Dalmazia, aromatizzata col vino dolce di Cipro e detta “zabaja”.

Qualunque sia la nascita dello zabajone, già a pronunciarlo ne sentiamo la vellutata e corroborante golosità.

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Sono passati dieci anni da quel tragico 19 marzo 2002.

L’immagine che torna in mente è di quella bicicletta appoggiata al muro, come se gli ideali verso cui “pedalava” Marco Biagi fossero stati fermati da chi non voleva ulteriori suoi passi.

Eppure quella sua bicicletta resta nel nostro immaginario quale simbolo di lavoro onesto, faticoso, continuo, spesso non compreso, a volte non condiviso, sorretto però sempre da ideali trasparenti di progresso.

Come i pensieri di chi va, pedalando in bicicletta.

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Già con la copertina si può giocare alle libere associazioni. Guardandola infatti pensi ad un oggetto familiare che però non riesci immediatamente ad individuare. Ma che senti far parte delle cose passate, alias perdute.

Cominci poi a sfogliare a caso questo libretto e inciampi nella “maglia di lana”, per le mamme di un tempo obbligatoria sempre (“Quello che tiene il freddo tiene anche il caldo“), nel “dentifricio”, non quello odierno di plastica indeformabile (“Il tubetto di una volta si schiacciava e lo arrotolavi come un tubetto di colore da pittore“), nel “lattaio”, figura ormai estinta (“Nel suo negozio uno andava con la bottiglia e acquistava il latte“), nella “siringa”, l’antenata della Pic indolor (“Erano di vetro, grosse, e l’ago era di ferro. Messe dentro un’apposita scatoletta venivano fatte bollire“).

Un viaggio in solaio la lettura di queste pagine di Francesco Guccini, che riesce a ricreare l’atmosfera di un tempo lontano, come in certe sue canzoni. E se per diverse di queste “perdute cose” ero troppo piccola per farle mie, qualche frammento di ricordo mi è riapparso. In particolare ho avuto la mia “madeleine” di fronte al racconto di giochi persi, quali “shangai e pulce”: “giochi da giornate piovose. Semplici bacchettine che stringevi fra le mani, li lasciavi cadere sul tavolo e dovevi riuscire a estrarli dal mucchio disordinato uno alla volta, senza che nessuno degli altri si muovesse di un micron. Pulce era un gioco da bambine, le quali oggi, da ex bambine, si illuminano ancora d’immenso al ricordo“. Così è successo a me, rivedendomi tra bastoncini e dischetti a divertirmi con poco in giornate di pioggia. Solo atmosferica.

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