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Posts Tagged ‘virus’

Neppure il tempo di riprendere fiato e riposizionarsi in coda per la dose booster del vaccino, che entra in scena “omicron”, ultima arrivata (dal Sudafrica) variante Covid. Il che ci fa provare il senso frustrante e distopico del loop, ossia del ciclo continuo, della scena reiterata, della giostra che gira sempre uguale, del cerchio da cui non si esce. Come dalla “o” di “omicron”, appunto.

Dicono i saggi che la lezione, se non compresa, si ripresenta uguale. Forse è tempo di considerare la precarietà quale naturale compagna degli umani passi, come ben suggerisce il filosofo Umberto Galimberti ne “Il libro delle emozioni”:

Le pandemie dei secoli precedenti, con cui si fanno tanto i confronti, erano perlopiù ‘regionali’. Dobbiamo renderci conto che il Covid, invece, è la prima pandemia dell’era iperconnessa e globalizzata: questo vuol dire che il virus ci accompagnerà ancora per molto tempo, la sfida per l’uomo sarà adattarsi. Noi siamo abituati a essere assicurati contro qualsiasi imprevisto, ma la vita non è assicurata contro nulla: dovremmo consegnarci alla precarietà dell’esistenza, accettando che oggi siamo ancora più precari che nel passato”.

Quel senso di precarietà che ci fastidia, perché ci ricorda che non tutto si può controllare, bensì dipende dalla “preghiera”, dalla “grazia”, dalla “volontà di altri”. Proprio quanto la parola “precario” racconta.

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La pandemia di Covid19 finirà “entro la metà del prossimo anno”. Questa almeno la previsione di Stéphane Bancel, amministratore delegato di “Moderna”, la società di biotecnologie produttrice dell’omonimo vaccino anti Covid. Un anno dovrebbe essere il tempo utile per avere dosi sufficienti di vaccini in modo che l’intera popolazione mondiale possa essere immunizzata.

Nel frattempo ci si chiede cosa il devastante virus ci abbia insegnato. Innanzitutto che i piani previsionali pandemici sono necessari per evitare panico generalizzato e mancanza di attrezzature indispensabili. Poi che la sanità pubblica va salvaguardata nel suo capitale umano e incentivata in investimenti tecnico-farmacologici nonché nella ricerca, voce purtroppo quasi dimenticata nei bilanci nazionali. E infine la pandemia ci ha insegnato che il mondo è talmente interconnesso che un battito di ali di farfalla ad una latitudine provoca, se non un urugano, un sommovimento anche ad altri paralleli.

Ma noi umani cosa abbiamo realmente imparato? Difficile dirlo, visto che l’inquinamento è tornato ad essere quello dell’era pre-covid, il traffico appare più convulso che mai, la corsa contro il tempo è ricominciata con affanno e lo sguardo verso l’altro continua ad essere dettato da malcelato fastidio o palese indifferenza. Eppure si diceva saremmo stati migliori.

Triste constatare che, nonostante le onde rovinose dello tsunami pandemico, siamo sempre gli stessi. Se non peggiori. Come se fossimo del tutto impermeabili a qualsiasi lezione.

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Stefano Loddo, “Barche alla deriva”

Infodemia è il termine usato dall’Oms per indicare quell’«abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno».

Di tale portata è ormai la mole incontenibile di informazioni, di segno contrario tra loro, e dette e smentite al batter di un twitt, che si fatica a fare ordine, a comprendere, a rielaborare. E quindi a decidere. Atto all’uomo necessario. Senza il quale ti limiti a resistere.

E così vaghiamo sempre più confusi, persi, disorientati. Pezzi di legno galleggianti su acque sconosciute, in assenza di orizzonte definito. Barche stanche alla deriva. In piena infodemia.

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È trascorso un anno, ma sembra un secolo, da quando tutto ebbe inizio.

È cambiata la nostra percezione del tempo, in continua tensione come un elastico, e quella dello spazio, in stretta torsione su inedite metrature.

I giorni si assomigliano l’uno all’altro, quando va bene. Le stanze diventano sempre più strette, quando va male.

Le notti si sono dilatate occupando spazi di luce. L’orizzonte, sempre meno visibile, si è ristretto. Fuori e dentro.

Mutate le relazioni. No abbracci, no baci. Sguardi fuggenti, parole nervose.

Schizoide il lavoro. In overdose bulimica tra pericolose consegne sul filo di un tempo immobile e compulsivo smart working di respiro orwelliano. Sempre che sia sopravvissuto, il lavoro.

La salute sospesa, tra paura e pericolo e azzardo e mancanza. Persino la lacrima, antico lavacro, rischia contagio. Quindi si asciuga. Involuzione meccanica. E triste.

La leggerezza un ricordo. La grazia un privilegio. La speranza una sfocata inquadratura.

Ma la primavera appare a portata di data. Seppur qualche nota risulti ancora stonata.

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La moderna e avanzata Svezia non solo non fa indossare le mascherine quale protezione da SarsCov2, ma addirittura dà la multa a chi le indossa. Scelta surreale.

Un professore è stato sanzionato dal suo preside per averla indossata. Si suppone per difendersi dal virus e non per dare scandalo con un capo osè.

C’è da chiedersi il motivo di tale delirante opzione. Motivo che è stato apertamente dichiarato: puntare, obbligatoriamente e senza deroga alcuna, all’immunità di gregge.

Chapeau. Da Nobel.

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Dopo un anno drammatico ed estenuante di pandemia, siamo alla fase “varianti” che sembra adombrare quella “vaccini”.

Ci aspettano gli aggiornamenti antivirus. Per il nostro sistema, come già facciamo per i computer.

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È una questione di parole. Ma anche di fatti.

Il globale lockdown ci ha imposto la cattività, sperimentando così la condizione di animali in gabbia.

Una volta tornati, almeno in parte, liberi ci stiamo scoprendo meno tolleranti e comprensivi, più diffidenti e suscettibili. Spirito di adattamento quasi azzerato, capacità relazionale non pervenuta. In una parola siamo diventati più cattivi. Già.

Ma i nomi sono conseguenti alle cose, come affermavano gli antichi.

Non è un caso che il “captivus” fosse originariamente il “prigioniero”. Che in condizioni di sottratta libertà diventa, suo malgrado, “cattivo”. Quando non lo si voglia considerare già a priori cattivo per il fatto stesso di essere prigioniero (possiamo dimenticarci dell’incredibile caso George Floyd?).

Ma la domanda è: chi rende il prigioniero tale?

Ps: purtroppo con la pandemia è anche aumentato il tasso di superbia scientifica nelle categorie più disparate: politici (proprio mai sforzarsi di pensare al bene comune?), tenori (e dedicarsi semplicemente al bel canto?), gente comune (che dire delle feste organizzate solo per dimostrare che il virus non c’è?), e persino alcuni virologi per i quali i contagiati non sono malati (sob!) se non all’1%. A quando l’amena negazione della terrestre rotazione?

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Mascherina chirurgica, questa sconosciuta.

Si porta come borsetta, braccialetto, gomitiera, pochette, sottomento, collare, bandana. Quasi mai nel modo corretto per cui è stata pensata.

Se copre, finalmente, la bocca, il naso è ovviamente fuori dalla stessa. Dimenticando allegramente, o non sapendo per niente, che il naso è parte integrante dell’apparato respiratorio. Detto in altro modo, il naso è una canna fumaria, che aspira ed emette aria.

Nel frattempo fuoriescono da ogni dove, come funghi dopo una pioggia estiva, i negazionisti, anche della mascherina. Quindi non solo non ne prevedono l’uso, anche quando e dove è obbligatorio (leggi luoghi pubblici al chiuso) ma non sopportano di vedere chi la indossa.

Forse perché ricorda loro la realtà, ossia che il virus sottotraccia continua a circolare e che la mascherina, a loro tanto invisa, ha comunque ridotto i contagi del 50%.

E se ciò appare poca cosa, pensando ai dati tragici di Covid19, allora il problema dell’animale a due gambe va ben oltre la pandemia.

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Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che non vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. 

José Saramago, da “Cecità”

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Non poteva che essere così.

Dopo il panico iniziale, e successivo alle ferree disposizioni di chiusura (aree rosse, scuole, musei, teatri, bar, impianti sportivi), sta subentrando un sottile fastidio generalizzato perché si sta prendendo atto che a cascata continua ci saranno conseguenze sull’economia del Paese Italia.

È vero. Ma è anche vero che contenere il virus è l’unico modo per evitare di scontrarsi con un numero certo e temibile. Quello relativo alla percentuale, ormai accertata scientificamente, di persone che possono aver necessità di terapia intensiva, 5 su 100. E, conti alla mano, non c’è disponibilità in tal senso per un numero che possa interessare una popolazione potenzialmente più ampia di quella attualmente interessata. Contenuta appunto nei due clusters di contagio.

Quindi le scelte agite appaiono, scientificamente e numericamente, l’unica via possibile. Le stesse applicate in Cina. Un gigante economico che si è comunque blindato pur sapendo, e già subendo, le conseguenze economiche negative. Ma intravvedendo in questi giorni, con un numero a decrescere di decessi, gli effetti positivi sulla salute pubblica.

Sono necessari, ovvio, investimenti economici emergenziali. Così come un protocollo unico europeo sarebbe stato auspicabile. Ma ciò rientra nelle opinioni.

E i numeri sono certezza, le opinioni no.

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