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Fratel Biagio

Due giorni fa, il 16 gennaio 2023, è stato catturato a Palermo il “capo dei capi” Matteo Messina Denaro, latitante da trent’anni. Data storica per l’Italia, da dedicare alla memoria di chi ha lottato contro la mafia sacrificando anche la propria vita.

Eppure Palermo è molto di più. Nello stesso giorno della cattura del boss mafioso Messina Denaro, la città piangeva Fratel Biagio, un missionario laico che ha dedicato la sua intera esistenza ai poveri, fondando la “Missione di Speranza e Carità” di Palermo. Migliaia di palermitani gli hanno reso l’ultimo saluto.

Forse gli stessi che hanno ringraziato i Carabinieri del Ros per il lavoro svolto con dedizione e tenacia giungendo ad un così alto risultato, quale l’arresto di chi ha ordito nell’ombra sanguinarie trame contro lo Stato.

Ecco perché ho scelto il volto luminoso di Fratel Biagio e quello oscurato dei Carabinieri del Ros per raccontare la Palermo di questi giorni. Calando invece un velo su chi è stato il mandante di tanto dolore.

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Misero e triste quello Stato che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Ma anche malandrino e ingiusto. Profondamente.

Uguaglianza ed equità di trattamento presentano tra loro la differenza notevole per cui se viene dato “100” a tutti ci sarà correttezza ma non giustizia, perché in tal modo non si terrebbe conto dei dati di partenza di ciascuno. Come nella vignetta soprastante.

Eppure nel nostro Paese, tra quelli sulla carta più industrializzati ed avanzati del mondo, sta accadendo qualcosa di ancora più grave ed ingiusto. Si sta togliendo pure il “minimo sindacale” a chi strutturalmente ha meno. Consegnandolo, senza scrupolo alcuno, a chi già ha di più. Che continuerà, in virtù di ciò, a vivere meglio. Usufruendo peraltro di quei servizi statali pagati, giustamente, per tutti, ma con le tasse pagate, ingiustamente, da alcuni. Ovvero i soliti, poco ignoti, allocchi. Mentre i soliti furbi, anch’essi poco ignoti, si fregano le mani, aggiungendo, in modo sfrontato, che “la pacchia è finita“. Non certo per loro.

Ps: È stato detto di “non disturbare il manovratore”, ma se questo “disturba” pericolosamente, con una guida favorevole a pochi, il tragitto di molti, forse una parola va infine pronunciata. Se non altro di sdegno.

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Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu inviato a Palermo come prefetto nel 1982 a fine aprile per fronteggiare la terribile offensiva di mafia di quei mesi, dall’omicidio del maresciallo dei Carabinieri Alfredo Agosta a quello del politico Pio La Torre. Cento giorni di speranza per i palermitani e di solitudine per lui. Fino all’omicidio di Via Carini del 3 settembre 1982, in cui perse la vita insieme a sua moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo.

A quarant’ anni da quel sanguinoso epilogo resta intatto, nonostante tutto, l’esempio del suo alto senso morale: Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti”.

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“Avevo altri piani, ma se serve ci sono”. 

In questa dichiarazione c’è tutto il profondo senso dello Stato e delle istituzioni, nonché di responsabilità, di Sergio Mattarella. Rieletto infine Presidente della Repubblica Italiana con ben 759 voti dopo una tormentata settimana di tentativi parlamentari di vario tipo. Spallate, salti nel buio, giri a vuoto, bruciando nomi, anche istituzionali, quasi si trattasse di un gioco da tavolo. Col rischio di minare sempre più l’edificio democratico del Paese. Quindi l’unica carta spendibile è stata infine il Mattarella bis, nonostante il “prescelto”, già scelto, avesse detto in ogni modo della sua indisponibilità, per questioni personali e per rispetto del dettato costituzionale.

Ma al momento della chiamata da parte della quasi totalità del Parlamento non si è tirato indietro, assumendo su di sé il gravoso compito. Di questo non si può che ringraziarlo.

Le sue prime parole, dopo l’ufficialità della rielezione, sono state proprio intorno alla “responsabilità” e al “rispetto”: “I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla Presidenza della Repubblica nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando – sul versante sanitario, su quello economico, su quello sociale – richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati – e, naturalmente, devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti – con l’impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini“.

E ora? Tutto riprende come prima? Non proprio, perché in tale circostanza l’attuale sistema partitico italiano ha disvelato fragilità e divisioni, con cui sarà necessario fare i conti al più presto.

Nel frattempo però auguri di buon lavoro al Presidente Mattarella.

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La Fiducia è un sentimento di sicurezza per qualcuno, tale da porsi “nelle sue mani”. È quanto fa Fiammetta, la figlia di Paolo Borsellino nella foto. Che è poi quanto si fa coi propri genitori se si è stati bambini fortunati.

Poi c’è la Fiducia nelle istituzioni, per cui alcuni uomini la rappresentano, credendo nelle istituzioni stesse, giungendo persino a sacrificare la propria vita.

Un audio inedito del giudice è stato da poco ritrovato negli archivi dell’Istituto siciliano di studi politici ed economici, una registrazione di un suo discorso tenuto a Palermo in municipio nel gennaio 1989. Una lucida analisi della Sicilia di quegli anni, di poco precedenti a quella terribile ecatombe, umana e civile, che furono la strage di Capaci e quella di via D’Amelio.

E Paolo Borsellino in tale audio insiste sulla parola “fiducia” legata allo Stato: “Fiducia nello Stato significa anche fiducia in un’efficiente amministrazione della giustizia sia penale, sia soprattutto civile”. In modo da evitare che, continuava, “si perpetui e consolidi il ricorso a un sistema alternativo criminale di risoluzione delle controversie”.

E diventano parole guida ancora per l’oggi, per quel sistema giustizia che arranca, minando la fiducia, appunto, del cittadino nello Stato.

Ecco perché a quel 19 luglio 1992 va sempre tributato un ricordo, umano e civile. Perché in quella via di Palermo trovarono un’orrenda fine un giudice e cinque agenti che rappresentavano la Fiducia nello Stato, credendoci profondamente.

Ps: oggi ricorre anche il ventennale del G8 di Genova, che rievoca altre pagine tragiche e oscure del nostro Paese, con i violenti scontri di piazza e la morte di Carlo Giuliani, nonché gli abusi (quando non torture) della polizia alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. A proposito di quella Fiducia…

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Ogni anno il 23 maggio per me è quell’anno. 1992, annus horribilis.

Salone del Libro, ancora fiera giovane e leggera. Io a zonzo tra i miei oggetti più amati. No Internet, no social, no cellulari. Tutto si diffondeva lentamente, le notizie le apprendevi con il telegiornale della sera.

Ma di quella ecatombe bestiale, strage di Capaci la chiamarono, l’eco sopraggiunse anche nel tempio che fa l’uomo meno bestia. E il mondo tutto, cartaceo e umano, si fermò. Sotto una cappa di incredulità e dolore ripresero, dopo qualche secondo, respiri e battiti di tutti. Senza più quelli dei caduti di Capaci. Senza più quelli nostri ancora intoccati dalla potenza devastante del male.

Davvero soltanto banale?

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Rifletto. Ancora. Sull’impensabile accaduto.

E su quanto noi italiani siamo lentissimi nell’agire e tentacolari nell’afferrare.

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Venticinque anni sono trascorsi da questa foto di Tony Gentile, scattata poche settimane prima delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Foto divenuta poi drammatica icona di quanto fossero umanamente vicini e complici i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ricordarli in quel loro dire e sorridere, prima che tutto non fosse più come prima, diventa un modo per testimoniare il loro agire, fatto di passione nella dirittura morale.

Ogni volta che ci penso vengo invasa dal rammarico per la loro potenzialità sospesa in eterno. E dal rimpianto per uno Stato umbratile che fatica a fare luce piena sui perché.

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Cominciamo col dire che il cambiamento in sé, scevro da riferimenti, ha valenza neutra, non è negativo né positivo. Il cambiamento assume una sua valenza relativamente alla situazione che si ha intenzione di mutare. La frase “la tua vita cambierà” rivolta ad un povero ha effetti diversi rispetto alla stessa frase rivolta ad un ricco.

Quindi tutto si gioca, filosoficamente, sul materiale di partenza. Nel caso del nostro referendum l’oggetto del contendere è la Costituzione, la carta fondativa del nostro stare insieme. Più volte definita “bella”, anche da scrittori e teatranti, essa è prima di tutto, giuridicamente, una carta giusta e libertaria. Quindi ogni cambiamento sulla stessa va pensato con severa attenzione, meticolosa applicazione e saggia lungimiranza.

Sul merito del quesito referendario la soppressione del Cnel, Consiglio Nazionale Economia e Lavoro, sembra raccogliere ampio consenso trasversale, perché organo di rilievo costituzionale poco produttivo e alquanto costoso. Va però ricordato che nell’intento dei Padri Costituenti era stato pensato per rappresentare le categorie produttive ed esprimersi sulle condizioni dei lavoratori, sottolineando così il fondamento egualitario e lavoristico della nostra repubblica.

Il quesito referendario prende poi in considerazione la revisione del “Titolo V” della Costituzione nel senso di una riduzione nel campo delle competenze e dell’autonomia delle Regioni. Alcune materie diverrebbero così di esclusiva competenza dello Stato.

Ma la questione forse più dibattuta, anche tra i giuristi, è il tema del superamento del bicameralismo paritario. Il nuovo Senato rappresenterebbe le istanze territoriali a livello nazionale, così che i senatori, dotati di immunità parlamentare, sarebbero scelti tra i consiglieri regionali e i sindaci. Quindi solo la Camera dei deputati sarebbe abilitata a dare la fiducia al Governo.

Ma veniamo al quesito referendario dal punto di vista linguistico. Esso risulta di non facile comprensione perché poco articolato, nonché compattato in componenti tra loro diverse. Come chiedere di scegliere se essere favorevoli o meno all’abolizione, insieme e tout court, dell’olio di fegato di merluzzo e del tacchino del Ringraziamento. Dimenticando di descrivere la tavola, i commensali e le loro esigenze nutrizionali.

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Speriamo che cambi il vento, che venga il libeccio e che si porti via quest’afa“, diceva il giudice Paolo Borsellino.

E queste parole sono state scelte nel ventiquattresimo anniversario della strage di Via D’Amelio dal movimento delle “Agende rosse”.

In memoria, ma anche in ricerca continua e mai rassegnata della verità.

Con la speranza che folate di un vento a direzione ostinata e contraria possano scompaginare, infine e finalmente, le antiche trame occulte.

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