Paolo Portoghesi fotografato da Giovanna Massorbio
Paolo Portoghesi amava Roma, il Barocco, Borromini, l’Oriente, la composizione, la natura. E la bellezza toutcourt.
È sufficiente ricordare una sua opera, “Casa Papanice” nella Capitale, a cui lavorò con l’ingegnere Vittorio Gigliotti, oggi sede dell’Ambasciata della Giordania, ma già dimora cinematografica per “Dramma della gelosia” e altri film. Una costruzione su tre livelli basata sull’uso della linea curva, a testimonianza del suo amore per il Barocco romano.
La sua più alta lezione è stata quella di “Abitare poeticamente la terra”, come recita il titolo di uno dei suoi ultimi libri.
Se non fosse che oggi è il “Primo Aprile” e quindi ogni scherzo vale, ci sarebbe da chiedersi se i fondamentali della nostra Repubblica Italiana siano ancora validi. Quando la seconda carica dello Stato esterna i suoi pensieri come fosse tra quattro amici al bar, dimenticandosi (o fregandosene, come direbbe lui) di essere il Presidente del Senato, non ci resta che piangere.
Ribadendo però che alcuni eventi storici, checché se ne voglia dire o revisionare, restano oggettivi, per cui il 23 marzo 1944 nell’attentato partigiano di Via Rasella rimasero uccisi 33 soldati tedeschi del reggimento di polizia Bozen facenti parte dell’apparato repressivo dei nazisti a Roma e non, come detto dal secondo pulpito di Stato, “una banda musicale di semi-pensionati”. Tanto che il giorno dopo per rappresaglia ci fu l’uccisione di 335 civili e militari italiani, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Punto.
La scultura in marmo, un giovane profugo sdraiato a terra su un ponte, quello che a Roma conduce a Castel Sant’Angelo, è talmente realistica nella sua inquietante bellezza da ricordare in modo evidente al passante che non si può inciampare nell’altro con indifferenza.
L’opera, In Flagella Paratus Sum – “Sono pronto al flagello”, è stata deturpata in questi giorni a tal punto che il Comune di Roma ha dovuto rimuoverla. L’artista Jago, al secolo Jacopo Cardillo, ha dichiarato: “Sapevo che sarebbe successo”, considerato il titolo dato alla scultura. Quindi la bellezza quale fastidio. Soprattutto se rappresenta quanto fastidia.
Tacendo poi degli uomini, in carne ed ossa non solo scolpiti, “pronti al flagello”. Per ignominia di altri uomini.
Chissà se dal G20 di Roma uscirà qualche impegno risolutivo per il futuro del clima da parte dei potenti della Terra.
Ciò che sicuramente rimarrà sarà la photo opportunity con lancio della monetina da 1 euro nella celebre Fontana di Trevi. Un gesto simbolico, ripetuto dai turisti di tutto il mondo quale bonheur di ritorno nella Città eterna.
Ma la simbologia più potente sta nell’immagine impressa nella monetina, l’uomo vitruviano, celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano, armoniosamente inscritto nelle due figure perfette del cerchio, simbolo del Cielo, e del quadrato simbolo della Terra. Ad unire macrocosmo e microcosmo proprio l’Uomo, considerato “specchio dell’universo”.
Chissà se ricorderemo davvero chi siamo, specchiandoci in quanto ormai intorno a noi vediamo.
È uscito di scena definitivamente Gigi Proietti, lasciandoci ammutoliti e già orfani di quel riso lieve e profondissimo, elegante e scanzonato che riusciva a smuovere emozioni e pensieri nello spettatore, migliorandolo.
Un animale da palcoscenico, capace come pochi di usare in ogni sfumatura un camaleontico linguaggio del corpo insieme ad un’ampia gamma vocalica. Mimica e intonazione intrecciate con sapienza scenica. Istrionico in ogni ruolo, come i guitti di un tempo antico.
Sapeva catturarti anche solo attraverso uno sguardo sornione, muovendosi però su ogni registro, dal testo classico all’improvvisazione pura.
E l’ultima uscita di scena, un autentico coup de theatre. Andarsene nel giorno del suo ottantesimo compleanno, in quel giorno di nascita, il “giorno dei morti” su cui giocava sempre, “la data, eh… Viene data… “.
La stessa sottile ironia, che in lui diventava maestria, con cui riusciva a sbeffeggiare, in una famosa performance, uno chansonnier francese dicendo davvero poco, eppure facendo arrivare moltissimo.
Grazie Maestro per averci regalato arte di sublime leggerezza.
Ps: qualche giorno fa un altro grande attore, Sean Connery, ci ha abbandonati… Che fatica… Rimando al mio omaggio per i suoi 90 anni del 25 agosto scorso.
Tutto strano tutto diverso, il Premio Strega al tempo del Covid19.
Uguale il luogo, un locus amenus, il Ninfeo di Villa Giulia a Roma, con un contorno fatto però di vuoto. Il pieno, dato dalla moltitudine umana, cancellato.
E così ieri sera, senza la molteplice e sfaccettata presenza umana che attende ogni anno con trepidazione lo scrutinio delle ultime schede di votazione dello “Strega”, è stato comunque proclamato il vincitore dell’edizione 74 del premio letterario italiano più prestigioso.
Traguardo tagliato da “Il colibrì” di Sandro Veronesi, già vincitore della Strega nel 2006 con “Caos calmo”. Prima di lui è accaduto solo a Paolo Volponi.
Il colibrì del titolo è Marco Carrera, un uomo che, come spiega l’editore, “Non precipita mai fino in fondo: il suo è un movimento incessante per rimanere fermo, saldo, e quando questo non è possibile, per trovare il punto d’arresto della caduta – perché sopravvivere non significhi vivere di meno“.
Lo scrittore fiorentino dedica questa vittoria anche a suo padre che gli ha ispirato la frase conclusiva del romanzo, “Preghiamo per tutte le navi in mare“: “Era una frase che mio padre diceva quando con la sua imbarcazione prendeva il largo. E io dedico questo libro anche a coloro che sono in mare e che cercano ospitalità nei nostri porti. Sono felice di avere vinto nuovamente lo Strega perché, inutile negarlo, è il più importante riconoscimento italiano. E sono soddisfatto di aver tagliato il traguardo con “ll colibrì” perché è un libro sul dolore, che insegna anche a reagire alla sofferenza e a ricavarne energie vitali”.
Immagini divenute iconiche e immortali, autentiche maschere dell’italiano medio quelle interpretate dal grande Alberto Sordi.
Il finto trasognato “sceicco bianco” che si dondola mollemente sull’altalena per sedurre l’ammiratrice di turno, il soldato lavativo che giunge però a sacrificarsi per la patria ne “La grande guerra”, lo sfaccendato e malinconico “vitellone” che “ombrella” con pernacchia i lavoratori, il bulletto “americano” di Trastevere che provocato magna “er maccarone”, il vigile motociclista inflessibile che di fronte al potere arretra, il medico arrivista che ricerca mutuati con ogni stratagemma, il capocomico che tenta con la moglie soubrette di sbarcare il lunario nella Roma occupata, il borghese piccolo che diventa killer spietato per vendicare il figlio, il marchese della Roma papalina dell’Ottocento che trascorre il suo tempo nell’ozio e nell’ordire beffe, il detenuto in attesa di giudizio che diventa vittima del sistema giudiziario.
Una galleria immensa di personaggi, un monumento all’italianità, un ricco catalogo di tratti leggendari e indimenticabili.
I cento anni dalla sua nascita sono l’occasione per ricordare e celebrare un talento immenso, un attore unico, un grande italiano. Alberto Sordi.
Un inedito “2 giugno”, Era Covid19, che vede le Frecce Tricolori ad abbracciare l’intera nazione. Con una presenza aerea millimetrica e spettacolare, da cartolina, a srotolare il nastro verde bianco rosso sulle città italiane, a partire da Codogno, da cui il malevolo tempo virale iniziò, fino a Roma, capitale di un’Italia stremata ma col capo alzato, pronta a ripartire. Anche se…
La Festa della Repubblica Italiana dovrebbe essere quella dei valori condivisi, del bene comune appunto. Che tale non può essere se non con la responsabilità civica attuata da ciascuno. Gli assembramenti da stadio, per vedere il passaggio della pattuglia acrobatica, che considerano il distanziamento sociale come una parola priva di senso, sottolineano nuovamente che il “buon senso”, prima ancora del “senso civico”, fatica ad essere posto in atto. Come se noi, popolo italiano, fossimo mossi dal senso primordiale del bene individuale. Con la Res publica, “la cosa di tutti”, alquanto sullo sfondo. Un affare poco personale. Quasi contasse sempre e solo avere “panem et circenses“. Per sé stessi. A scapito di tutti gli altri.
Queste parole sono state espresse dal capo della Polizia Franco Gabrielli, commentando gli ultimi fatti di sangue avvenuti a Roma.
Il suo richiamo alla città di Batman suona alquanto curioso, perché trattasi sì di luogo violento e degradato, ma pur sempre letterario.
Come se, anche solo per negazione, fosse ogni volta più arduo un possibile parallelo con spazi reali. Necessitando viceversa di nuovi e immaginifici paralleli geografici.
Molti, soprattutto dopo l’endorsement di stampa nazionale e internazionale, la ritenevano sicura vincitrice del Premio Strega 2015 e invece è arrivata solo terza.
Ma chi è Elena Ferrante? Chi si cela sotto questo pseudonimo con cui la sua tetralogia del ciclo de “L’amica geniale” sta facendo furore tra i lettori?
Le puntate, non della saga ma sulla sua reale identità, si sono aperte da tempo. C’è chi dice sia la traduttrice partenopea Anita Raja, moglie di Domenico Starnone, chi per stare in famiglia pensa allo stesso Starnone. C’è poi chi fa il nome di Goffredo Fofi e dei suoi editori Sandro e Sandra Ferri.
Curiosa la scelta dell’anonimato in un mondo in cui tutti, scrittori compresi, vogliono apparire. In questo caso è la stessa Ferrante ad aver detto che i suoi libri devono essere percepiti come “organismi autosufficienti”, che non necessitano della sua presenza.
I libri che tornano a camminare da soli…
PS: per la cronaca, il Premio è andato al romanzo “La ferocia” di Nicola Lagioia. In termini tecnici, un autentico ossimoro.