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“Versicoli quasi ecologici” di Giorgio Caproni

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

(1972, dalla raccolta Res Amissa)

Lo rivedo ancora, ora come allora, il “mio” Giorgio Caproni. A consegnarmi, con grazia lieve, il Premio Montale per la tesi di laurea. Uno dei miei poeti guida. Sottile e all’apparenza fragile. In realtà delicato, ma di tempra forte, livornese. Sguardo nostalgico, in parte languido. Gli occhi si soffermavano spesso su qualcosa di lontano. Temporalmente lontano. In avanti. Quell’antivedere del poeta, che guarda quel che poi noi vedremo.

Così nella raccolta “Res amissa”, in cui “la perduta cosa” è quella che sfugge. Perché impossibile a dirsi, perché impossibile a trattenersi. A volte col nostro, di noi umani, concorso di colpa.

Ecco allora l’imperativo dei suoi ecologici “versicoli” a non uccidere le molteplici forme di natura, a non soffocare le plurime voci di vita. Perché anche di questo siamo fatti noi umani. Erba, acqua, libellula, aria verde. Da non oltraggiare. Semplicemente, senza profitti, da amare.

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