Che il regista Alejandro González Iñárritu, Oscar 2015, sia un talento è ormai evidente. Ogni sua pellicola, da “21 grammi” a “Babel“, è una geniale riflessione su tematiche spesso di rottura. Questa volta il suo vittorioso “Birdman” presenta tali e tanti piani-sequenza da diventare film sui generis. Lo stesso Iñárritu ha detto che con il piano sequenza voleva dare allo spettatore l’impressione di una “realtà da cui non si può sfuggire, perché viviamo le nostre vite senza la possibilità di fare un montaggio”. Forse per questo motivo Hollywood, premiandolo, ha voluto celebrare se stessa, nella sua capacità di “mettere in scena” la vita.
Imbarazzante invece l’amnesia dell’Academy su Francesco Rosi, non ricordato tra i grandi del cinema che ci hanno lasciato nell’ultimo anno. Che tale mancanza sia da imputarsi ai suoi film-inchiesta, tanto lontani dai voli pindarici di “Birdman“?
Un leggero vento italiano è comunque soffiato sugli Oscar 2015, con la statuetta vinta dalla ormai mitica (ha vinto quattro Oscar!) costumista torinese Milena Canonero per i costumi dell’onirico “Grand Budapest Hotel“.
Meritatissime le due statuette interpretative, entrambe intorno alla malattia, Julianne Moore che ha raccontato la lotta tra perdita di memoria e forza di volontà in “Still Alice” e Eddie Redmayne che nel biopic “La teoria del tutto” rende sfaccettato e parlante lo sguardo del fisico affetto da SLA Stephen Hawking.
Mia personale menzione al film “Boyhood“, che delle sei nominations ne trasforma in premio solo una (a Patricia Arquette), ma che resta un autentico esperimento cinematografico. Contravvenendo alle regole filmiche, racconta infatti 10 anni corrispondenti al tempo in cui è stato girato il film, tempo di esistenza di un bambino dagli 8 ai 19 anni reali. Tentando così di mostrare la vita umana nel suo svolgersi. Scardinando le categorie filmiche. E forse anche esistenziali.