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Posts Tagged ‘linguaggio’

Tra tutti i problemi urgenti da affrontare in questo momento, la Commissione Europea ha delineato le linee guida sul linguaggio.

In particolare hanno suscitato clamore le regole sul linguaggio delle festività, in merito alle quali l’esecutivo europeo invita in un documento interno ad “evitare di dare per scontato che tutti siano cristiani, quindi anziché buon Natale, è meglio dire buone feste. Sii sensibile al fatto che le persone hanno diverse tradizioni religiose e calendari. Anche «buone vacanze» potrebbe andare bene“.

Non passano 24 ore e, come ormai ci stiamo abituando, assistiamo al dietrofront, alla marcia indietro, al “non volevamo”. La Commissione europea ha infatti annunciato il ritiro delle linee guida sul linguaggio, perché da più parti ci sono state critiche all’uso sconsigliato di espressioni anche consuete, come appunto “Buon Natale”. In una dichiarazione, la Commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli definisce il documento che contiene tali linee guida “inadeguato allo scopo prefisso” e “non maturo“, nonché sotto gli standard richiesti dalla Commissione. “La mia iniziativa – spiega la commissaria – di elaborare linee guida come documento interno per la comunicazione da parte del personale della Commissione nelle sue funzioni aveva lo scopo di raggiungere un obiettivo importante: illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione europea verso tutti i ceti sociali e le credenze dei cittadini europei“.

Due brevi considerazioni.

La prima. In quanto cultrice di lingua e linguaggio penso che eliminare parole sia sempre un segno inquietante del mondo che ci attende. Perché il rischio è la semplificazione, nonché l’accorpamento di concetti diversi. E il geniale George Orwell ci aveva già messo sull’avviso in “1984” con la famigerata “neolingua”.

La seconda. In questo tempo pandemico la comunicazione è spesso contraddittoria. Come a voler tenere dentro tutto e tutti, senza fare scelte. Che comportano sempre fatica e tempo nel compierle e responsabilità nel mantenerle. Viceversa, meglio evitare. Soprattutto meglio evitare di comunicare in tutta fretta quanto non è stato accuratamente pensato. Perché tra una possibilità e la sua attuazione sta in mezzo il tempo di gestazione. Invece ultimamente la gestazione è sparita, per cui viene comunicata in tempo reale la “pensatina”, per poi fare retromarcia in un nanosecondo se il mondo comincia a borbottare. Gli esempi sono innumerevoli, ma sono sufficienti questo sul “linguaggio delle feste”, e quello scolastico per cui una classe sarebbe dovuta andare in Dad con tre studenti positivi l’altro ieri, solo con uno ieri, ma nuovamente con tre oggi.

Ma davvero navigare a vista, senza mappe e correggendo sempre la rotta, ci è così utile? O il rischio è girare in tondo, col temuto loop ad attenderci?

Comunque, “Buon Natale” o “Buone feste”. Fate voi.

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Quando Donald Trump é stato eletto a Presidente degli Stati Uniti d’America mi sono chiesta: “Chissà se il mondo lo regge per quattro anni.” Nel frattempo sono io a non reggerlo già più, nonostante il suo mandato abbia all’attivo una striminzita manciata di settimane.

“Sta facendo quanto promesso in campagna elettorale”, ti fanno notare compiaciuti i suoi sostenitori. Già.

Però… Però bisogna prendere atto di un salto di forma: ora quella istituzionale é equivalente a quella da tono elettorale. Nuovo oggetto di studio per chi si occupa di comunicazione. Che sta diventando non solo violenta e urlata ma anche estremamente povera di termini.

Tanto che il lessico usato da Trump é comprensibile anche a chi mastica poco inglese, segno forte e inequivocabile della decadenza dei tempi.

Perché Trump non usa un linguaggio semplice e chiaro, ma elementare e primitivo. Un linguaggio cioè che non contempla i termini mediani, quelli di cui deve essere ricco il desco delle trattative. Non solo in politica, ma nelle cose umane in genere.

Infatti sono le sfumature a raggiungere l’altro. Solitamente i colori primari tendono ad essere autoreferenziali.

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ionesco

Da “La cantatrice calva” di Eugene Ionesco, incipit:

Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese. Porta occhiali inglesi; ha baffetti grigi, inglesi. Vicino a lui, in un’altra poltrona inglese, la signora Smith, inglese, rammenda un paio di calze inglesi. Lungo silenzio inglese. La pendola inglese batte diciassette colpi inglesi.

Signora Smith: Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese. I ragazzi hanno bevuto acqua inglese. Abbiamo mangiato bene, questa sera. La ragione è che abitiamo nei dintorni di Londra e che il nostro nome è Smith.
Signor Smith: (continuando a leggere, fa schioccare la lingua).
Signora Smith: Le patate sono molto buone col lardo, l’olio dell’insalata non era rancido. L’olio del droghiere dell’angolo è di qualità assai migliore dell’olio del droghiere di fronte, ed è persino migliore dell’olio del droghiere ai piedi della salita. Non voglio dire però che l’olio di costoro sia cattivo.
Signor Smith: (continuando a leggere, fa schioccare la lingua).
Signora Smith: Ad ogni modo l’olio del droghiere dell’angolo resta il migliore…
Signor Smith: (continuando a leggere, fa schioccare la lingua).

Vent’anni fa scompariva il drammaturgo Eugene Ionesco, esponente del teatro dell’assurdo, che col nonsense ha messo in scena l’angoscia e l’irrazionalità della condizione umana.

E’ sufficiente rileggere l’incipit di uno dei suoi capolavori, “La cantatrice calva”, per sentire la forza e l’attualità di quel testo, in cui i personaggi dialogano attraverso luoghi comuni, con un linguaggio del tutto privo di valore comunicativo. Lo spunto per l’opera venne a Ionesco leggendo casualmente un manuale di conversazione inglese/francese per principianti. Trovò così irresistibili quei dialoghi banali che li usò per mostrare il vuoto spirituale dell’umanità che si esprime attraverso un linguaggio stereotipato.

Ancora più ora di allora. Preveggenza della poesia.

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Andrea Zanzotto, nato il 10 ottobre 1921, è ritenuto il nostro più grande poeta contemporaneo. Ha attraversato il Novecento utilizzando il linguaggio poetico in tutta la sua polivalenza semantica, risultando a tratti anche oscuro, compiendo però sempre un viaggio nel profondo.

E proprio come “una talpa” intenta “a scavare nel linguaggio e nel paesaggio” l’ha descritto Eugenio Montale, aggiungendo: “A lui tutto serve, le parole rare e quelle dell’uso e del disuso; l’intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe. Sullo sfondo, poi, può esserci tanto il fatto del giorno che il sottile richiamo psicologico. E’ un poeta percussivo ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore”.

E’ sufficiente leggere la poesia “Al mondo” per sentire il “batticuore” di Zanzotto:

Mondo, sii, buono;                                                                                                                                             

"Andrea Zanzotto" di Paolo Steffan - 2009


esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere, super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”
un pò più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc.) -sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote
abbi qualche chance
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, munchhausen.

Auguri, Maestro.

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