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Il nartèce allagato della Basilica di San Marco a Venezia

Il naufragio di Venezia continua. Purtroppo.

Diverse maree eccezionali in giorni ravvicinati diventano un evento storico. E tragico. Per la fragilità di questo patrimonio artistico mondiale. Poco curato, spesso sfregiato. Grandi navi, turismo mordi e fuggi, scarsa considerazione per il valore delle “Pietre di Venezia”, come le chiamava il celebre scrittore John Ruskin.

Tre sfregi di questi giorni, tre “segni” di un’unica riflessione.

Il nartèce di San Marco allagato. Il nartèce è il corto atrio tra le navate e la facciata principale, tipico delle basiliche dei primi sei-sette secoli del Cristianesimo. Il termine deriva dal greco e significa “bastone, flagello”, simbolo di pentimento e punizione. Un “segno” fin troppo chiaro delle colpe di tutti noi. Dall’indifferenza alla ruberia.

“Il bambino naufrago”, opera murale di Bansky, ha l’acqua che gli arriva ormai alla vita, quando solitamente emerge dal canale coi piedi visibili fuori dall’acqua. Ha un giubbotto di salvataggio, per ogni evenienza, ma la nuvola rossa di un razzo segnaletico sembra gridare al mondo l’emergenza di Venezia.

Sott’acqua anche “Il bambino naufrago” di Bansky a Rio San Pantalon, nei pressi di Dorsoduro (Venezia)

C’è una libreria a Venezia, considerata una delle più belle al mondo, con una gondola piena di libri a “navigare” tra gli scaffali. Per non parlare delle vasche. Si chiama “Acqua alta”, proprio a monito dei naviganti-lettori su un fenomeno tipico della città lagunare, ma non a questi livelli. E anche questo luogo, nonostante le precauzioni , è finito sott’acqua.

Perché a questa città unica è venuta a mancare la manutenzione ordinaria, quella che va ben oltre la straordinaria fatta di faraonici progetti mai entrati in funzione. Una manutenzione quotidiana, affettuosa, necessaria.

Libreria “Acqua alta” a Venezia

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In questi giorni, leggendo vari articoli intorno a Paolo Villaggio, mi sono imbattuta nella sua ultima intervista, quella di qualche mese fa, in occasione delle riprese di “La voce di Fantozzi”.

E lì, tra le parole di Villaggio, senti l’eco assordante di Leopardi, quello delle “Operette morali”. E concordo con chi definisce l’inventore di Fantozzi un filosofo.

Dice Paolo Villaggio: “Man mano che ti avvicini al Grande Evento – morire è un evento formidabile – ti viene quell’angoscia mortale che ti viene leggendo Kafka. Ora ho quasi 85 anni. Quanti me ne restano? Cosa dura la vita? Finisce per tutti. Anche per i più grandi, come Kafka e Dostoevskij. E’ un pensiero che ti fa venir voglia di gridare aiuto: come si fa a non morire subito? A pensare di non esserci più dopodomani. A pensare di non avere più questa libreria dietro le spalle. Quando leggi Kafka senti proprio questa voce dentro di te che urla: Non subito! Non subito!“.

Quella voce leopardiana, in parte “Cantico del gallo silvestre“, in parte “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie“. Quella voce intessuta di intelligenza acuta e somma disperazione per quello che è l’esistenza di quei cosi a due gambe che siamo noi umani. Alquanto fantozziani.

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