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Posts Tagged ‘Leopardi’

Sono trascorsi cinquant’anni dall’arrivo dell’uomo sulla Luna. Ma l’abbiamo desiderata dalla notte dei tempi. Guardandola, cantandola, dipingendola. Volendola.

Perché ci gira intorno, dandoci la misura delle cose. Dal mensile calendario terrestre alla dimensione dello spazio extraterrestre. E a lei, alla silenziosa luna leopardiana, rivolgiamo i nostri pensieri più intimi, seppur universali.

Forse per questo quel 20 luglio 1969 tutti si sono sentiti parte della missione Apollo 11. E Neil Armstrong, con quella mitica impronta sul suolo lunare, è divenuto così il simbolo della possibilità di far avverare i sogni. Di volere la luna e averla. Almeno in parte.

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In questi giorni, leggendo vari articoli intorno a Paolo Villaggio, mi sono imbattuta nella sua ultima intervista, quella di qualche mese fa, in occasione delle riprese di “La voce di Fantozzi”.

E lì, tra le parole di Villaggio, senti l’eco assordante di Leopardi, quello delle “Operette morali”. E concordo con chi definisce l’inventore di Fantozzi un filosofo.

Dice Paolo Villaggio: “Man mano che ti avvicini al Grande Evento – morire è un evento formidabile – ti viene quell’angoscia mortale che ti viene leggendo Kafka. Ora ho quasi 85 anni. Quanti me ne restano? Cosa dura la vita? Finisce per tutti. Anche per i più grandi, come Kafka e Dostoevskij. E’ un pensiero che ti fa venir voglia di gridare aiuto: come si fa a non morire subito? A pensare di non esserci più dopodomani. A pensare di non avere più questa libreria dietro le spalle. Quando leggi Kafka senti proprio questa voce dentro di te che urla: Non subito! Non subito!“.

Quella voce leopardiana, in parte “Cantico del gallo silvestre“, in parte “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie“. Quella voce intessuta di intelligenza acuta e somma disperazione per quello che è l’esistenza di quei cosi a due gambe che siamo noi umani. Alquanto fantozziani.

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"Un biondo mare silente" - Photo by Ester Maero

“Un biondo mare silente” – Photo by Ester Maero

Un altro regalo dalla natura, inaspettato. Una vacanza del cuore, grato.

Mentre guido in una via periferica di Torino volgo lo sguardo a destra e penso di sognare.

Un pezzo d’Ogliastra a pochi metri da me. Un numero esteso e disteso di pecore intente nel loro lavoro. Placide, serafiche e, come ci insegna Leopardi, felici.

Capaci di rendere felice, come Leopardi non crederebbe, anche me.

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luna1

Guardo la luna e ripenso al nostro racconto tra cielo-vita-stelle.

E a quel Leopardi che ancora recito, un po’ più sola.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna?“.

Quella domanda narrata a te dalla tua nonna, a me figlia da te mamma.

Filo di ricordi, ricordi sul filo…

Ne tengo ancora un capo“, recitava il Poeta.

Trattieni il tuo, di filo, mamma. Teso intorno alla nostra luna.

Che sia visibile, anche da qui.

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Edward Hopper "People in the sun" - 1940

Edward Hopper “People in the sun” – 1940

L’uomo medio dei tempi del Leopardi poteva interiorizzare ancora la natura e l’umanità nella loro purezza ideale oggettivamente contenuta in esse; l’uomo medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end a Ostia.”

Pier Paolo Pasolini, da “Scritti corsari”(1975).

Ps: riflessione non così distante, mutatis mutandis, dai recenti pensieri francescani…

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Questa mattina, all’alba, lei era lì. Piena, gigante, più vicina del solito. E come sempre bellissima.

Una Super Luna. Suggestiva, emozionante, primordiale. Un enorme occhio su di noi.

Tale che ho sentito più vibrante del solito quel verso di Leopardi che condensa le domande di tutti noi:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna?“.


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Raccomando ai miei posteri 
(se ne saranno) in sede letteraria, 
 il che resta improbabile, di fare 
 un bel falò di tutto che riguardi 
 la mia vita, i miei fatti, i miei non-fatti. 
 Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere 
 ed è già troppo vivere in percentuale. 
 Vissi al cinque per cento, non aumentate 
  la dose. Troppo spesso invece piove 
  sul bagnato.”

Eugenio Montale, da “Diario del ’71 e del ’72”.

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Sono trascorsi 12 giorni dal “doppio T” (Terremoto & Tsunami) che ha colpito con inaudita violenza il Giappone, sconquassandolo. Numeri e parole purtroppo hanno la triste funzione umana di contare/raccontare l’evento. Tutto risulta tanto, troppo: 15.000 le vittime ad oggi, 21.000 case distrutte, 500.000 sfollati. Un disastro immane, una catastrofe senza precedenti, un’apocalisse, o meglio l’Apocalisse, perché ti puoi aspettare solo Quella, non una di tante. Con la magnitudo 9 Richter liberata dal terremoto giapponese è mutata persino la morfologia delle coste di quell’area, e l’asse terrestre si è spostato. E su tutto, che ormai è poco, il potenziale, drammaticamente incombente, di un’ulteriore tragedia, l’incubo della radioattività, nemico reale seppur invisibile, anche se non completamente, visto che le esplosioni nei reattori della centrale di Fukushima, con le conseguenti nubi tossiche (e Chernobyl, col suo carico di vittime, dopo 25 anni è tornata presente col proprio fantasma) rimandano comunque in tutto il genere umano ad una memoria collettiva che ha tatuato in sé il “Fungo” che si alza verso il cielo, soprattutto in quell’area geografica del mondo.

Di fronte a tanta incontrastata potenza ricominciano le riflessioni di sempre, di ogni uomo che si scopre/riscopre “piccolo” in confronto ad una Natura “indifferente”, quando non “maligna”, nei confronti del genere umano. E Leopardi è lì, a soccorrerci spaventandoci con l’altezza dei suoi versi. “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo” risponde la Natura, nel “Dialogo della Natura e di un islandese”, alle domande smarrite di un uomo, di noi tutti. E il paragone tra noi e le formiche, raccontato ne “La ginestra, o il fiore del deserto”, si rivela una visione lucida, seppur amara, dell’incombente “piede” della Natura sulla “testa” dell’uomo: “Come d’arbor cadendo un picciol pomo / […] d’un popol di formiche i dolci alberghi, / […] schiaccia, diserta e copre / in un punto; così d’alto piombando / dall’utero tonante scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina / […] / le cittadi che il mar là su l’estremo / lido aspergea, confuse / e infranse e ricoperse / in pochi istanti.”

Leopardi, scrivendo quei versi, andava con la mente alla distruzione di Pompei per l’eruzione del Vesuvio, in cui, come sempre, gli uomini diventano mattoncini Lego che “Qualcuno/Nessuno” si “di-verte” a “dis-ordinare”. Cioè “pone fuori rotta”, lasciando unicamente “caos”. Forse è il grido disperato che Leopardi lancia in “A Silvia” a farci sentire un “trucco” sotteso alla vita stessa: “O Natura, o Natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?”.

Noi, “quei ‘cosi / con due gambe’ che fanno tanta pena…”, come scriveva Gozzano, ci inorgogliamo troppo e troppo in fretta (“con forsennato orgoglio inver le stelle”) delle nostre conquiste, della nostra avanzata (o deriva) tecnologica, cercando di “piegare” la Natura, con dighe/sbarramento, edifici a prova di, uso/abuso del nucleo, e di anticiparla con un controllo in cui nulla sembra sfuggire, tutto appare sicuro, e poi… E poi siamo costretti a piegare il capo superbo di fronte all’onnipotenza del fenomeno naturale, alla sua incoercibilità, come già la ginestra sa di dover fare: “E piegherai / sotto il fascio mortal non renitente / il tuo capo innocente.” Ed è proprio “il fiore del deserto” a darci il messaggio pro-positivo su cui ricostruire, non solo il paesaggio geografico-civile ma anche quello umano in ciascuno di noi, una “mappa-valore” cui aggrapparci in tanta disperata devastazione, che si rivela essere la solidarietà tra gli uomini: “Nobil natura è quella / che […] tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor porgendo / valida e pronta e aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune.”

La foto del bimbo giapponese a mani alzate senza protezione, di fronte ad un agente specializzato protetto con tuta e maschera che controlla il livello delle sue radiazioni, ci racconta con muta e disperata rassegnazione la disarmata fragilità dell’uomo davanti alla furia capricciosa della Natura.

 

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