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Posts Tagged ‘Lampedusa’

Weekend di “ponti” quello appena trascorso.

Ponti tragici che non sono visivamente più, ponti politici drammaticamente inesistenti, e ponti resi inaspettatamente possibili al punto da divenire storici.

Venerdì mattina in sei secondi la demolizione controllata dei resti del ponte Morandi. E in quel polveroso sbriciolarsi era presente la memoria della tragedia e l’amara simbologia di un intero Paese.

Sabato la conclusione, chissà se davvero catartica, dello sbarco forzato a Lampedusa della nave Ong “Sea Watch” e dei suoi migranti, con arresto della capitana. La politica nazionale e internazionale del tutto assente, come se porti e ponti fossero questioni in cui le persone non rientrano affatto. La soluzione non sarà né facile né scontata, perché diverse norme e disposizioni sono state violate ma il soccorso in mare resta legge antica e primaria.

Domenica il colpo di teatro di un comunicatore abile. Il Presidente americano Donald Trump attraverso un tweet, come tra amici che si incontrano per una pizza, invita il Presidente nord coreano a dirsi ciao, stringendosi la mano, nientepopodimeno che sul confine tra Corea del Sud e Corea del Nord. Kim Jong Un accetta ed è Storia. Quella passeggiata minima e lunghissima è stato un ponte gettato tra due sponde distanti e divergenti. Ma non così lontane.

Un buon segno. Di cui il mondo intero ha fame.

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Che il referendum pro muro anti-migranti dell’Ungheria di Orban non abbia raggiunto il quorum è un segnale forte con cui rendere omaggio a tutte le vittime migranti del Mediterraneo.

Ora è tempo di azioni concrete per far cessare il “Fuocoammare”.

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16 ottobre 1943

Ancora volti attoniti, come quelli di Lampedusa, come quelli delle tragedie di sempre.

Settanta anni fa quell’osceno sabato romano, vergogna di noi tutti, anche se non c’eravamo. Perché certe colpe dei padri ricadono eccome sui figli. E l’indifferenza in mezzo a cui i nazisti rastrellarono quel sabato più di mille persone appartenenti alla comunità ebraica per deportarle ad Auschwitz andrà prima o poi spiegata. O almeno indagata, compresa. Perché è l’indifferenza di sempre, è il “non mi riguarda”, è il tenere le mani in tasca pensando che così omicidio non sia.

E’ il silenzio, colpevole a tutti i livelli, in cui pensiamo di far tacere gli accadimenti “sgradevoli”. Come se quegli sguardi, da Roma 1943 a Lampedusa 2013, non appartenessero al nostro genere.

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rifugiati-del-darfur

Guardi questa fotografia e non ti sembra diversa da quella che ritraeva i sopravvissuti del Vajont.

Due tragedie, Vajont e Lampedusa, con l’acqua in comune a travolgere, annullare, uccidere vite, sogni, speranze.

E un’unica mano ad aiutare l’acqua. L’altra umanità, se così la si può ancora chiamare, fatta di soldi, potere, arrivismo, cinismo, indifferenza.

Con l’orologio che sembra fermo, e guasto, da mezzo secolo.

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Sbarchi-lampedusa

Pietà e vergogna sono i sentimenti che mi abitano in queste ore.

L’ultimo, terribile, immane naufragio di immigrati nel mare di Lampedusa lascia storditi. Per il numero di uomini che, scappando da guerra e miseria, vanno incontro alla morte sperando la vita. Spiaggiandosi come balene. Senza fiato.

E senza fiato restiamo noi che siamo sulla terra guardando quel mare, avendo solo più un moto di pietà verso quelle vite perse, quelle occasioni perdute. Un miserere che si leva alto sulle onde.

Ma ancora più forte è il moto di vergogna che provo nelle vesti di cittadina europea che sta sulla costa senza far nulla. Politiche comunitarie del tutto assenti, silenzi istituzionali, incapacità ed indifferenza nel gestire seriamente e pragmaticamente l’emergenza migratoria.

Spesso coloro che decidono si ritrovano per prendere misure da “saggi”. Fateci assaggiare, finalmente, la vostra saggezza. In fretta. prima che dalla costa si avvisti ancora la morte.

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Lo so. Non ho ancora detto nulla a tal proposito. Ma di solito non scrivo sull’onda dei fatti mentre stanno accadendo. Ho bisogno di far decantare gli eventi. Sempre. Forse illudendomi che prendano una forma compiuta, e che da soli possano esprimersi.

Ma intorno ai fatti di Libia mi sono resa conto di aspettare a dipanare il filo del racconto e della riflessione non per questioni di “cantina”, per riuscire così a distinguere “le note di testa”, bensì per una sensazione invasiva e destabilizzante di disagio. E l’impressione è che questo disagio lo proviamo in diversi, perché ovunque giriamo il “vaso Libia” la sbrecciatura è evidente.

Il vocabolario, alla parola “disagio”, recita: “condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute”. Perché, ammettiamolo, è davvero “sgradevole” (ma resta un eufemismo, come “disagio”) bombardare chi fino all’altro giorno veniva omaggiato a suon di baci, tappeti rossi e ragazze (forse secondo l’antico costume per cui all’ospite, in quanto sacro, si fa dono anche della propria donna). Eppure era già dittatore (ma la real politic ci ha abituati ad intrattenere rapporti con tutti perché “gli affari sono affari”…) , e mai illuminato se non dall’energia del proprio gas e petrolio, che arriva però anche nelle nostre italiche case (ahi, il disagio…) di personcine per bene dedite alla democrazia. E che dire degli investimenti del colonnello direttamente nei forzieri di una delle nostre più antiche Casse di Risparmio? “Pecunia non olet”, dicevano gli antichi. Solo che qui è il caso di turarsi il naso per afrori di varia provenienza.

Un organismo internazionale che mostra sempre più il suo lato debole in caso di decisioni urgenti. Potenze che si sentono presuntuosamente migliori di altre, a tal punto da sentirsi guida per spedizioni di non ben chiaro ingaggio e obiettivo. Una guerra approntata per il rispetto di una no fly zone che vede il cielo di Libia paradossalmente mai tanto trafficato. E intanto a terra civili che, mentre lottano orgogliosamente e tenacemente per la libertà del loro Paese, rischiano però a destra e a manca, perché il raiss li stermina quando non li usa come scudi umani, e dall’alto può arrivare la morte, oltre che la liberazione, perché le bombe, si sa, proprio intelligenti non sono. Che brutto affare la guerra. Che bruttissimo affare la guerra di Libia.

E siccome ovunque mi giri sento che facciamo danno, anche solo con un’opinione, mi è altrettanto  difficile guardare a Lampedusa e al mare di Sicilia, dove ad essere politicamente corretti è giusto e sacrosanto tendere la mano ai disperati in arrivo dal mare, ma il nostro piano qual è? Solo aspettare che il mare ingrossi, la guerra finisca, Lampedusa si sposti? E la girandola di parole in questi giorni, alla sottile ricerca di distinguo tra profughi e clandestini, rifugiati politici e possibili cellule terroristiche?

Non riesco a trovare il capo della matassa-riflessione da dipanare. Non ci riesco proprio. Forse ho ancora necessità di lasciar decantare i fatti. Anche se qui bisognerebbe agire, con avvedutezza e determinazione. E forse con una visione un po’ più prospettica. Ma questo è il lavoro della politica, da sempre. Almeno fino a ieri. Oggi altri compiti, meno prospettici e più privatistici, incombono. Anche per questo provo disagio.

Ecco perché fino ad oggi dell’affaire Libia non ne avevo ancora parlato.
E comunque il disagio, a riguardo, continua ad abitarmi.

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