Le cronache di questi giorni ci inducono a riflettere, ancora una volta, sulla collocazione dell’uomo. Tra arte e parte.
Giornate buie queste (le luminose sembrano ormai di altri pianeti), in cui chiudono la loro parabola terrena artisti luminosi, di linee e note.
Zaha Hadid, l’archistar del futuro, sempre pronta a visualizzare oltre, tra disegni, materiali e fattibilità. La luce del suo sguardo a concretizzarsi nel mattone che erigeva.
Gianmaria Testa, il cantore degli ultimi, sopraffino e malinconico nelle sue note, sempre pronto, da capostazione qual era, a varare energie per futuribili mete del cuore. Senza barriere, la poesia per passaggio a livello.
E cosa dire di Giorgio Calabrese, il paroliere poeta di “E se domani”?
Piangi, e saluti l’umano che si era fatto arte.
Ma non fai in tempo a congedarti con tristezza dal quel luminoso umano, e già i sentimenti mutano e non t’ardiscon di parlare.
E l’indignazione ti rialza la testa, vedendo l’umano che si fa “parte”. Che ha sete di fazione, di privato, di interesse. Per padri, figli, ma niente Spirito Santo. Semmai fidanzati e petrolio e trivelle e soldi. Già, Mammona, su tutto.
E allora, in un colpo, ti è più chiaro l’umano. Tra cielo-visione-poesia, e fango-terra-miopia. Viaggio stretto, muto, futile. E drammaticamente inutile.