Francesco Rosi è stato il cinema civile. Le sue inchieste, le sue domande, i suoi film nascevano da una visione alta, civile appunto, della vita. Un insegnamento attuale, sia per il risultato filmico (lo sfruttamento edilizio nella sua Napoli raccontato ne “Le mani sulla città” non mostra il suo mezzo secolo di vita) che per il pensiero sotteso.
A tal proposito mi piace ricordare una sua riflessione, che appare un faro nel buio di questi giorni:
“L’arte si accompagna sempre a una sofferenza. È un tormento e nello stesso tempo una gioia. Si passa, molto velocemente e intensamente, da momenti di gioia ed esaltazione a momenti di depressione e di dubbio, continuamente. Non si è mai sicuri di aver raggiunto la verità di quello che si voleva dire, mai certi di essere capaci di assumersi la responsabilità del legame fra sé e gli altri. Non si può essere solitari. La creazione in origine è certamente un atto solitario, ma l’oggetto della creazione appartiene a tutti, è un oggetto sociale. Essere creatore deriva da questa esigenza: ci si rende conto di avere una responsabilità nei confronti di tutti, e occorre assumersela completamente, malgrado i dubbi e le sofferenze.” (da Gilles Jacob et al., Lezioni di cinema).
Ps: nel frattempo si è anche spenta l’attrice svedese Anita Ekberg. La sua immagine, superba e bellissima, che entra con il lungo strascico del vestito nella fontana di Trevi ne “La dolce vita” di Fellini entra definitivamente nella storia.