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La mancanza di valori, l’individualità sempre protagonista rispetto al comune agire, l’egoismo sfrenato e, soprattutto, l’assenza di speranza, possono essere alcune delle ragioni che hanno portato la corruzione e il degrado nella nostra società.”

Da “Quello che non si doveva dire” (2006) di Enzo Biagi, giornalista italiano (9 agosto 1920 – 6 novembre 2007)

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Alcuni magistrati del pool Mani pulite: Davigo, Colombo, Di Pietro

Scrive Enzo Biagi in “Era ieri”: “Tutto era cominciato un mattino d’inverno, il 17 febbraio 1992, quando, con un mandato d’arresto, una vettura dal lampeggiante azzurro si era fermata al Pio Albergo Trivulzio e prelevava il presidente, l’ingegner Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista Italiano con l’ambizione di diventare sindaco di Milano. Lo pescano mentre ha appena intascato una bustarella di sette milioni, la metà del pattuito, dal proprietario di una piccola azienda di pulizie che, come altri fornitori, deve versare il suo obolo, il 10 per cento dell’appalto che in quel caso ammontava a 140 milioni.

Mario Chiesa era stato colto in flagrante mentre intascava una tangente dall’imprenditore monzese Luca Magni che, stanco di pagare, aveva chiesto aiuto alle forze dell’ordine. Il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne per lui un ordine di cattura. Tangentopoli era cominciata.

Bettino Craxi, leader del Partito Socialista, difese l’integrità del Partito negando l’esistenza della corruzione a livello nazionale e definendo Mario Chiesa un “mariuolo isolato”. I fatti lo smentirono dimostrando che la corruzione in Italia era stata elevata a sistema, a tal punto che con Tangentopoli un’intera classe politica fu spazzata via e la cosiddetta Prima Repubblica fu archiviata.

Del pool di mani Pulite facevano parte, oltre ad Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini, Armando Spataro e Francesco Saverio Borrelli che dichiarò, in un’intervista al giornalista Giorgio Bocca: “Io mi sono convinto che Mani pulite sia stata possibile perché ci fu un lento ma progressivo recupero di valori, la consapevolezza di vivere in una società ingiusta, la stanchezza di dover subire dovunque e comunque la disonestà imperante.”

L’apparente trionfo della “rivoluzione dei giudici”, che si disse aver prodotto la “Seconda Repubblica” in Italia, si dimostrò però di breve durata. Fra la metà degli anni ’90 ed i primi anni del nuovo secolo la questione della corruzione politica calò nell’ordine delle priorità dell’azione pubblica, per mezzo di un tacito accordo “bipartisan”. Facendo così dell’Italia un Paese di “gattopardi”, in cui “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.

Non è un caso che ancora oggi, a vent’anni di distanza da Tangentopoli, resti comunque facile in questo Paese “Farla franca” come recita il titolo dell’ultimo libro di Gherardo Colombo, che nel sottotitolo pone l’inquietante domanda “La legge è uguale per tutti?“. Che l’incapacità italiana di far rispettare l’articolo 3 della Costituzione ci appaia una domanda retorica, oltre che triste, sottintende che tanto resta da fare, forse a livello etico prima che giudiziario.

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