
I talebani, senza incontrare resistenza alcuna, sono nuovamente a Kabul. Al potere, col loro oscurantismo. E l’orologio per l’Afghanistan torna indietro di vent’anni, e anche più. Perché l’Occidente, cioè tutti noi del blocco Nato, ha illuso quel Paese e i suoi abitanti che un altro modo di vivere fosse possibile. Soprattutto per le donne afghane.
Laleh Osmany e Tahmina Arian, attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan e capofila del movimento #whereismyname, hanno lavorato per consegnare un nome e un’identità a quelle donne: “In Afghanistan c’è una tradizione che proibisce di chiamare in pubblico le donne con il loro nome, è considerato peccato. […] Il nome delle donne afghane non compare nemmeno nei loro documenti, nel certificato di nascita, nelle prescrizioni del medico, negli inviti di matrimonio, nei certificati di nascita dei bambini o anche nel certificato di morte e nella pietra del cimitero. […] D’ora in poi, i nomi delle madri verranno stampati accanto al nome dei padri”, raccontava qualche anno fa Tahmina Arian.
Finalmente per le ragazze afghane era possibile essere identificate col proprio nome (senza essere la figlia o la moglie di qualcuno), col proprio volto (senza la buia e umiliante prigione del burqa), e con un percorso di studi che aprisse alla conoscenza e al mondo, cioè alla vita.
Ora tutto si fa oscuro in Afghanistan. Ma per le donne afghane la notte scende di più. Completamente nera.

Shamsia Hassani, prima street artist donna di Kabul
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