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Posts Tagged ‘Covid19’

La pandemia di Covid19 finirà “entro la metà del prossimo anno”. Questa almeno la previsione di Stéphane Bancel, amministratore delegato di “Moderna”, la società di biotecnologie produttrice dell’omonimo vaccino anti Covid. Un anno dovrebbe essere il tempo utile per avere dosi sufficienti di vaccini in modo che l’intera popolazione mondiale possa essere immunizzata.

Nel frattempo ci si chiede cosa il devastante virus ci abbia insegnato. Innanzitutto che i piani previsionali pandemici sono necessari per evitare panico generalizzato e mancanza di attrezzature indispensabili. Poi che la sanità pubblica va salvaguardata nel suo capitale umano e incentivata in investimenti tecnico-farmacologici nonché nella ricerca, voce purtroppo quasi dimenticata nei bilanci nazionali. E infine la pandemia ci ha insegnato che il mondo è talmente interconnesso che un battito di ali di farfalla ad una latitudine provoca, se non un urugano, un sommovimento anche ad altri paralleli.

Ma noi umani cosa abbiamo realmente imparato? Difficile dirlo, visto che l’inquinamento è tornato ad essere quello dell’era pre-covid, il traffico appare più convulso che mai, la corsa contro il tempo è ricominciata con affanno e lo sguardo verso l’altro continua ad essere dettato da malcelato fastidio o palese indifferenza. Eppure si diceva saremmo stati migliori.

Triste constatare che, nonostante le onde rovinose dello tsunami pandemico, siamo sempre gli stessi. Se non peggiori. Come se fossimo del tutto impermeabili a qualsiasi lezione.

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Un “Vecchio Nuovo Mondo” è la condensazione ossimorica di quanto tutti, in trepidante attesa, desideriamo.

Più attenzione e gentilezza in un mondo tutto verde. Con qualche oggetto e segno antico, a darci l’idea della continuità.

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Riflettendo sul 25 aprile, Anniversario della Liberazione d’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista, viene da soffermarsi, in questo anno, sul tempo che gira stretto intorno a tale data, tanto fondante per il nostro Paese.

Appresso al 25 aprile sta il 26 aprile, che nel corrente anno pandemico è il giorno iniziale di una serie di riaperture, che portano con sé un messaggio subliminale, ma deviante, di “liberi tutti”. E così si va associando una ricorrenza storica, quella della “Liberazione da”, a quella della “Libertà di”. Ma tenere separate date e parole ci permette di continuare a vedere e trasmettere le differenze tra situazioni, come quelle tra un regime e un virus.

E ancora a proposito di tempi intorno al 25 aprile, ieri 24 aprile si è spenta un’artista italiana, Milva, che tanto lustro ha dato al nostro Paese, con voce sublime e presenza scenica. Ecco, che “La Rossa” se ne sia andata qualche ora prima della “Festa della Liberazione”, a cui dedicò una famosa “Bella ciao”, lei che diceva “ho un debole per i canti della libertà“, fa pensare ad un filo tenacemente steso tra i pensieri intorno a questa storica giornata.

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Mads Nissen, “The First Embrace”, Vincitore World Press Photo 2021.

Un ritorno alla vita. Un inno all’abbraccio quale modalità umana d’elezione per raccontare, senza parole, quanto sentiamo vicino l’altro.

Così la foto vincitrice del World Press Photo 2021, “Il primo abbraccio” di Mads Nissen, ci ricorda in modo semplice ma potente la magia di due umani stretti e avvolti tra le braccia l’uno dell’altro. Quasi ali celestiali.

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“Non smettiamo di piangere”, il tributo della street artist Laika a Luis Sepúlveda, ad un anno dalla sua scomparsa.

Un anno fa, il 16 aprile 2020, ci lasciava per complicazioni da Covid lo scrittore, e combattente cileno come diceva lui, Luis Sepúlveda. La prima vittima illustre di una pandemia con cui dobbiamo fare i conti, tristissimi, ancora oggi.

Le lacrime della Gabbianella sul Gatto Zorba, che si difende a suo modo e comunque, sono quelle dei suoi lettori, grati a lui per le storie tenere e immaginifiche che ci ha regalato.

La storia dell’uomo e del combattente, oltre che dello scrittore, è quella che ci consegna Ilide Carmignani, la traduttrice italiana di Sepúlveda, nel libro “Storia di Luis Sepúlveda e del suo Gatto Zorba”.

È la storia di Lucho raccontata ad un gatto. Dalla nascita in primavera in un albergo nella terra ai confini del mondo, all’incontro con Carmen Yáñez, sua compagna di vita, che lo ricorda così: “attraverso il genere della favola, creando personaggi ispirati dalla grandissima intesa che aveva con la natura e con gli animali, ha esaltato i valori di cui era fatto per passare all’umanità i concetti etici della diversità, dell’uguaglianza, del rispetto dell’altro e della solidarietà.”

E così, nel libro di Carmignani, il suo gatto lo ascolta parlare dell’entusiasmo per l’elezione del presidente Allende e del tragico golpe che lo costringerà all’esilio, della lunga esperienza in Amazzonia accanto agli indios shuar, fino all’arrivo ad Amburgo, dove inventerà la favola della gabbianella per far addormentare i suoi tre bambini. Una vita avventurosa, “incandescente” la definiva lui, narrata come una favola dolce e forte.

La favola di Luis Sepúlveda, “l’intrepido marinaio – queste le parole della sua traduttrice – che a bordo di minuscoli gommoni arcobaleno bloccava le petroliere che tentavano di sversare la peste nera in mare, il coraggioso giornalista che svergognava i colpevoli sui giornali, lo scrittore che dava voce alle creature che non avevano voce, insomma l’umano più famoso e più amato dai gabbiani e dai gatti del porto di Amburgo e di tutti i porti dove miagolano gatti e volano gabbiani.”

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Soffitto della “Sala del Labirinto” – Palazzo Ducale di Mantova

Incertezza generale. Su tutto. Forse che sì, forse che no.

Il piano vaccinale procede a rilento. Ma ora il piano è cambiato e i problemi sono risolti. No, adesso si inceppa per carenza vaccini.

Astrazeneca è raccomandato under 60. Anzi, è un vaccino per tutti. Meglio però per over 60.

Siamo rossi (e non per timidezza), ma forse diventiamo arancioni (e non perché guru). Oppure il contrario. Ovviamente lo sappiamo quasi senza preavviso.

“Forse che sì, forse che no”, come il titolo che D’Annunzio scelse per un suo romanzo. Ispirandosi alla scritta istoriata sul soffitto della Sala del Labirinto, all’interno del Palazzo Ducale di Mantova.

E come in un labirinto, anche noi ci ritroviamo al bivio. Ormai ogni giorno. Senza sapere dove andare. Quasi sapessimo che i nostri passi girano da tempo in tondo, senza riuscire a scorgere l’uscita dal labirinto. Rischiando così, fermi su noi stessi, di impazzire.

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Stefano Loddo, “Barche alla deriva”

Infodemia è il termine usato dall’Oms per indicare quell’«abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno».

Di tale portata è ormai la mole incontenibile di informazioni, di segno contrario tra loro, e dette e smentite al batter di un twitt, che si fatica a fare ordine, a comprendere, a rielaborare. E quindi a decidere. Atto all’uomo necessario. Senza il quale ti limiti a resistere.

E così vaghiamo sempre più confusi, persi, disorientati. Pezzi di legno galleggianti su acque sconosciute, in assenza di orizzonte definito. Barche stanche alla deriva. In piena infodemia.

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È trascorso un anno, ma sembra un secolo, da quando tutto ebbe inizio.

È cambiata la nostra percezione del tempo, in continua tensione come un elastico, e quella dello spazio, in stretta torsione su inedite metrature.

I giorni si assomigliano l’uno all’altro, quando va bene. Le stanze diventano sempre più strette, quando va male.

Le notti si sono dilatate occupando spazi di luce. L’orizzonte, sempre meno visibile, si è ristretto. Fuori e dentro.

Mutate le relazioni. No abbracci, no baci. Sguardi fuggenti, parole nervose.

Schizoide il lavoro. In overdose bulimica tra pericolose consegne sul filo di un tempo immobile e compulsivo smart working di respiro orwelliano. Sempre che sia sopravvissuto, il lavoro.

La salute sospesa, tra paura e pericolo e azzardo e mancanza. Persino la lacrima, antico lavacro, rischia contagio. Quindi si asciuga. Involuzione meccanica. E triste.

La leggerezza un ricordo. La grazia un privilegio. La speranza una sfocata inquadratura.

Ma la primavera appare a portata di data. Seppur qualche nota risulti ancora stonata.

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Il Festival di Sanremo 2021, quello in tempo Covid è iniziato. Nonostante tutto. Anche se non a prescindere da tutto. Che poi è sempre il Covid. Agente unico sulle nostre vite, respiro – riso – fiordaliso.

Si può comunque tentare, anche per esorcizzare. Ma nonostante buoni addendi (presentatori, musica, gag, orchestra), il risultato cambia. L’energia è spenta, la leggerezza solo tentata, le bollicine un ricordo.

Applausi finti, poltrone vuote, sguardi che non incrociano sguardi. La “di-grazia” pandemica a sottolinearci la mancanza di “grazia”. Quella che rende essenziali e graditi anche i gesti minimi.

Purtroppo questo Festival di Sanremo ci ricorda, senza orpelli di sorta, quanto non siamo più. E quanto ancora di nuovo non siamo. “Un sorriso dentro al pianto” o poco altro, come canta Ornella Vanoni su testo di Francesco Gabbani. Ospiti sul palco Ariston in una di queste sere, così poco (ahimè) festivaliere.

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La moderna e avanzata Svezia non solo non fa indossare le mascherine quale protezione da SarsCov2, ma addirittura dà la multa a chi le indossa. Scelta surreale.

Un professore è stato sanzionato dal suo preside per averla indossata. Si suppone per difendersi dal virus e non per dare scandalo con un capo osè.

C’è da chiedersi il motivo di tale delirante opzione. Motivo che è stato apertamente dichiarato: puntare, obbligatoriamente e senza deroga alcuna, all’immunità di gregge.

Chapeau. Da Nobel.

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