Se il Festival di Sanremo è predittivo del tempo che vivremo, sarà rivoluzione. Forse addirittura una rigenerante rifondazione.
Come cantano col loro potente rock i Maneskin, vincitori inaspettati: “Scusami ma ci credo tanto /Che posso fare questo salto / Anche se la strada è in salita /Per questo ora mi sto allenando / E buonasera signore e signori“.
Aria nuova sul palco, a partire da una gestione meno ingessata e più improvvisata (seppur alquanto pensata, chapeau) in un’edizione pandemica difficile (speriamo unica), ai futuribili quadri viventi, ricchi di citazioni più che di provocazioni, di Achille Lauro.
E poi artisti poco conosciuti dal grande pubblico (esiste ancora?), ma ricchi di inedite sfumature vocali, capacità scritturali di valore e potenti presenze sceniche. Madame, 19 anni e un potenziale in divenire, Willie Peyote, Premio critica Mia Martini per un testo rap che è reportage di questi tempi (“Non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify / Riapriamo gli stadi ma non teatri né live“), La rappresentante di Lista, voce – magnetismo – impegno.
Qualche serata di musica all’apparenza leggera, anzi leggerissima, come hanno cantato in modo geniale Colapesce e Di Martino, Premio Lucio Dalla della Sala Stampa: “Parole senza mistero / Allegre ma non troppo / Metti un po’ di musica leggera / Nel silenzio assordante / Per non cadere dentro al buco nero / Che sta ad un passo da noi, da noi / Più o meno”.
Questo forse il senso di questo 71° Festival di Sanremo. Un nuovo inizio augurato da ciascuno a tutti noi.
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