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Posts Tagged ‘calcio’

Dopo 33 anni all’ombra del Vesuvio torna lo scudetto, il terzo per il Napoli e per Napoli.

Un’impresa quasi epica da parte di un gruppo eterogeneo e coeso, caparbiamente voluto dal Presidente De Laurentiis e guidato da un mago coi piedi per terra, Mister Spalletti. Certaldese doc, come il suo predecessore più famoso, Giovanni Boccaccio. E come lui con un felice tempo napoletano. Risposta pronta, a volte mordace, visione chiara, a volte predittiva.

E poi la squadra. Questo Napoli è un mondo in miniatura: giocatori da ogni parte del globo che, invece di atteggiarsi a solite primedonne, mettono in campo il senso compiuto del mediano di Ligabue, “A coprire certe zone / A giocare generosi“.

Si meritano la vittoria. Col beneplacito del loro (ma anche nostro) beniamino Maradona. E il gotha dei napoletani appartenenti a tutti noi, da Edoardo De Filippo, a Totò, da Massimo Troisi a Pino Daniele.

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Ci era piaciuto tanto quell’abbraccio tra Vialli e Mancini per la vittoria dell’Italia agli Europei di calcio nell’estate sportivamente magica del 2021.

Ci era piaciuto perché c’era commozione, amicizia, condivisione. In breve, un idem sentire, quel medesimo sentire, raro e prezioso, che ti fa provare quanto prova l’altro, e di ciò gioisci.

Oggi, all’uscita di scena terrena di uno dei due “gemelli del gol”, quell’abbraccio assume una diversa sfumatura, ancora più tenera, seppure più triste. Perché cogliamo, ora e purtroppo, che quell’abbraccio non riguardava solo il qui e ora, ma anche l’altrove e l’allora, ovvero il viaggio, la bellezza, la fatica, la gioia, il dolore, la speranza. Insomma, la vita tutta.

Ecco perché quell’abbraccio oggi ci emoziona ancora di più. Perché riguarda tutti noi.

Ps: Terra lievissima a quel “capitano di navigazione” che è stato Gianluca Vialli.

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È stato il calciatore più grande. O meglio, il calciatore per antonomasia. Al punto che lo scrittore Jorge Amado diceva: “Se il calcio non si fosse chiamato così, avrebbe dovuto avere come nome Pelè.

Tre mondiali vinti col suo Brasile, oltre 1200 gol, amato da tutti. Calciatore del secolo per la FIFA, Pelè è stato dichiarato “Tesoro nazionale” e “Patrimonio storico-sportivo dell’umanità”. Ecco perché veniva chiamato “O Rei”. E lo sarà per sempre.

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Chissà a cosa pensano nell’Altrove per chiamare, poco dopo il numero 10 “Pibe de oro”, il numero 20 “Pablito”, l’eroe del mitico mondiale di Spagna 1982.

Che estate fu quella! Leggerezza e gioia, null’altro. Con la nazione che riscopriva unità e orgoglio attraverso i ragazzi di una nazionale che giocò col cuore, fino in fondo. Fino a vincere un mondiale. Il terzo per l’Italia. Tra quei ragazzi Paolo Rossi, fortemente voluto da Bearzot, nonostante il mondo contro. E “Pablito”, così chiamato da tutti dopo i suoi primi e inaspettati gol, confermò in modo magico le aspettative del mister. Rendendo reale quel fantastico crescendo, partita dopo partita, verso il titolo mondiale.

Come ebbe a dire lo stesso calciatore, “Non avrei più vissuto un momento del genere. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito…“.

E oggi la sensazione è quella. Che tutto sia scivolato via. Troppo in fretta. Lasciandoci senza l’energia rapida di Paolo Rossi, che rese possibile un sogno. Già finito.

Grazie, Pablito.

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Il regista Emir Kusturica, con il suo sguardo poetico, è riuscito a cogliere nel profondo l’essenza sfaccettata di Diego Armando Maradona, quel suo élan vital da eterno bambino che lo ha reso carismatico insieme al talento calcistico da fuoriclasse.

E il suo film documentario “Maradona by Kusturica”, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2008, ci racconta le sfumature, gli sguardi, i sogni, i démoni dell’uomo Diego, insieme al mito inarrivabile Maradona, Mano de Dios, che attirava in modo magnetico folle oceaniche.

Vivo la vita che voglio vivere” affermava con forza Diego al regista. Raccontando in modo lucido e senza diaframmi la sua origine povera ma affettuosa, il suo legame ancestrale con la pelota e l’Argentina, il suo amore sincero per la famiglia e i tifosi, la sua dipendenza dalla cocaina.

«So di aver fatto del male prima di tutto a me stesso e quindi alla mia famiglia, alle mie figlie. Credo che in futuro imparerò a volermi più bene, a pensare di più alla mia persona. Non mi vergogno però. Non ho fatto male a nessuno, salvo a me stesso e ai miei cari. Mi dispiace, sento una profonda malinconia, soltanto questo».

E nella canzone che canta insieme ai suoi amici, sotto lo sguardo attento del regista, il ritmo gioioso è venato proprio di quella profonda malinconia.

Quella di ogni uomo quando ripensa ai fotogrammi già storia di sé.

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Ora che i riti laici e sacri sono conclusi, sembra ancora più irreale che Maradona non sia più. A trasudare talento ed eccesso. Ed è allora che ti rendi conto che il Pibe de oro è già entrato nella leggenda. Essendo lui stesso mito, personaggio epico, dio pagano. Quindi immortale.

Pasolini diceva che “il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo“. Nel caso di Diego Armando Maradona l’aura di sacralità era ammantata di fragilità. Con la vita a spumeggiare però sempre e comunque. Alla maniera di un bambino quando, felice, gioca col suo pallone.

E noi, fortunati, a bere vita per interposta persona. Come nel palleggio di riscaldamento, divenuto celebre, prima di Napoli-Bayern Monaco sulle note di “Live is life” degli Opus. Colonna sonora perfetta a tale surplus di vitalità. Che per qualche istante ci illudevamo potesse essere anche nostro.

Grazie Diego.

 

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Sembra incredibile che tutta quella potenza esplosiva che sul campo di calcio ha reso Diego Armando Maradona il più grande calciatore di tutti i tempi sia spenta. Per sempre. Il Pibe de oro, la mano di Dio.

In fondo uno scugnizzo napoletano. Veloce a schivare gli avversari, amante della vita e dei suoi eccessi. Chiaro e scuro, luci e ombre, sugli altari e nella polvere. Ma sempre amato, osannato, perdonato. Come solo un dio.

L’estasi sui campi di calcio. Dribblava sul tappeto erboso andando a gol, in modo rapido e magico, regalando stupore e felicità a chi lo guardava compiere miracoli. Come un dio, appunto. I Mondiali 1986 vinti superando l’Inghilterra col gol considerato il più bello del secolo, quasi un riscatto argentino alla sconfitta nella guerra delle Falkland. E due scudetti col Napoli che lo ha sempre venerato e ora lo piange come un figlio. Collocandolo tra i suoi Grandi. Totò, De Filippo, Troisi e Pino Daniele.

E le cadute fuori dal campo. Tra cocaina, alcool, esagerazioni, amicizie pericolose, depressione, donne, tradimenti, operazioni. Con la consapevolezza di essere risorto più volte dall’abisso. Come solo un dio.

Il regista Emir Kusturica nel documentario girato su Maradona lo definisce un dio mesopotamico, Gilgames. Un dio a cui perdoni ogni eccesso. Perché tanto ti dà.

Non fosse stato un calciatore forse Maradona sarebbe stato un rivoluzionario. Per quella sua capacità di attirare le masse con un naturale carisma. Come il suo amico Fidel Castro, anche lui spentosi proprio il 25 novembre. O come Che Guevara, che portava tatuato su di sé.

Ma non poteva che essere un calciatore Diego Armando Maradona. Per essere il più grande di ogni tempo. Un dio del pallone.

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E così, dopo il Rengapensiero sulla tonalità vocale femminile meno gradevole di quella maschile, siamo al Collovatipensiero.

Il già campione del mondo di Spagna ’82 ha sostenuto, durante una trasmissione televisiva Rai, che una donna non può parlare di tattica calcistica perché “la donna non capisce come un uomo, non c’è niente da fare.” Non del tutto pago della sua maschia esternazione, ha aggiunto che “quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Non ce la faccio!”.

E che dire di noi che ascoltiamo en plein air le curiose e censurabili divagazioni postprandiali che un tempo non prendevano aria, appunto, se non tra le quattro mura di casa/bar/ufficio? Farlo poi dalla televisione di Stato, come fosse lo Speakers’ Corner di Hyde Park appare davvero eccessivo.

Come un tiro fuori area.

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Spaventosa macchina“. Così il giornalista de “La Stampa” Luigi Barzini definì la TV italiana ai suoi esordi, il 3 gennaio 1954.

Tra breve, senza dubbio, – disse – l’apparecchio sarà letteralmente ovunque, dove ora sono radio-riceventi , in parrocchia, nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà inun certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia”.

E così è stato. Riconoscendoci come comunità nelle tragedie, dal rapimento e assassinio di Aldo Moro agli attentati contro i giudici Falcone e Borsellino, dal disastro del Vajont all’alluvione di Firenze, dalla disgrazia di Alfredino Rampi al terremoto di Amatrice. Una parte, non certo per il tutto. Fino alle impensabili immagini del crollo delle Torri Gemelle di New York.

Ma ci siamo riconosciuti anche nelle conquiste collettive, da un primo piede umano sulla Luna a quelli calcistici italiani da “Campioni del mondo”. Insieme ad elezioni di Papi entrati nella Storia e a spezzoni di spettacolo, dal “Tuca Tuca” a “Rischiatutto”, entrati nel nostro immaginario collettivo.

Una “spaventosa macchina” di registrazione del Tempo.

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Cristiano Ronaldo è l’acquisto calcistico più costoso di sempre, 100 milioni di euro, sia per la Juventus che per la Serie A italiana.

Ma CR7 è ormai un brand, che va oltre, molto oltre, il calciatore. Linea di abbigliamento e intimo, catena di ristoranti, icona della Nike. Vittoria, appunto, di cui lui é il tedoforo del terzo millennio. Fenomeno globale, che ammanta di fascino e soldi ciò che lo circonda. Nuovo Re Mida. Che rende oro quanto sfiora. Con un’attenzione maniacale per il fisico. Senza mai dimenticare il fisco.

Grazie al suo trasferimento a Torino, infatti, l’uomo più social del pianeta potrebbe usufruire di una norma fiscale italiana per cui verserebbe nelle casse del nostro fisco una tassa forfettaria, e leggera, di centomila euro. Fine della partita. Già. Così in un sol colpo, e grosso, dribbla anche il suo contenzioso col fisco spagnolo.

Quando si dice “aver la testa nel pallone”…

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