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Sembrava, fino a poco tempo fa, che gli “impelagati” fossero quei migranti che, arrivando, vivi o morti, sulle nostre coste, “assaggiavano” quel pelagus che è mare nostrum.

Ora l’Europa, quasi nella sua interezza, si rende conto che “impelagati”, cioè “in una situazione difficile come quella di chi è in mare”, siamo tutti, anche chi il mare non lo “assaggia”, sia per motivi geografici che sociali.

Ma in un “mare difficile” da attraversare/navigare/condividere lo siamo proprio tutti. Perché la situazione migrazione non è emergenziale ma epocale. Una parte del Sud del mondo si muove verso il Nord. Peraltro con uno spostamento di popoli che è ciclico, come quasi tutto ciò che riguarda le cose della Terra. E della vita.

Tutti siamo “impelagati” quando vediamo che le stazioni, luoghi di passaggio, rischiano di diventare luoghi di fermo.

Tutti siamo “impelagati” quando, in un incredibile déjà vu, ritroviamo uomini che scrivono numeri sulla pelle di altri uomini.

E tutti siamo più che “impelagati”, quasi “annegati”, nello scorgere sulla spiaggia turca di Bodrum, l’acqua silenziosa a lambirlo, il corpo esanime di un bimbo siriano. Il futuro, di tutti, col fiato interrotto.

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