Ci avviamo a diventare, tra contraddizioni e fatiche e drammi, un Paese quasi tutto “bianco”. E in tempo pandemico “il colore non colore” è sinonimo di ritorno ad una modalità quasi senza restrizioni. Eppure…
Eppure questo “bianco” ha poco da spartire col colpo di spugna che rende la tela nuovamente intonsa, pronta per essere ridipinta. Questo “bianco” rimanda semmai alle tele di Alberto Burri, in cui la “purezza” si frammenta e le ombre delle fenditure disegnano in maniera netta l’immagine di un terreno inaridito. Che è quanto siamo e ci sentiamo ora. Senza “acqua/vita” da parecchio tempo. Incapaci persino, nel nostro interiore tessuto, di “dissetarci”, perché ci siamo rinchiusi in un approvvigionamento di sopravvivenza, quindi sterile.
Abbiamo necessità di una “rieducazione”, propriamente un “ex-ducere“, un “condurre fuori” noi stessi verso quanto giunge dal nostro esterno. Il che non è poi così istintivo, né semplice.
Un “bianco” quindi che ci incanta e ci abbaglia. Forse perché, come recita il “Moby Dick” di Melville, “Non abbiamo tuttavia ancora risolto l’incantesimo di questo biancore, né appreso perché esso rivolga un richiamo di così grande potenza all’anima.”