In musica a volte è bene che le parole siano in una lingua che non è la nostra, così da non essere immediatamente comprensibili. Per non subire delusioni.
E’ quanto mi è ultimamente successo con “One day” del cantante israeliano Asaf Avidan.
La prima volta che ascoltai questa canzone mi colpì, senza saperne ancora nulla, il ritmo da ballata elettronica sostenuto da una voce alquanto particolare che pensavo femminile. Mi piacque molto. E ogni volta che mi capitava casualmente di risentirla ritrovavo il piacere della combinazione di quel timbro graffiato su note grunge.
Allora decisi di non affidarmi più alla casualità nel poterla fruire, ma ne iniziai la sua accurata ricerca. E la trovai, con quella soddisfazione di quando raggiungi quanto vuoi. Ma io qui non mi fermo, spesso sbagliando. Perché il lavoro archeologico di scavo a volte porta alla luce elementi insospettabili.
Provate ad ascoltare per la prima volta solo la canzone, chiudendo gli occhi. Aspirate le sensazioni che vi suscita. Al secondo ascolto leggete le parole che raccontano il testo. Che sono oggettivamente poche, sempre le stesse, e anche curiose per ciò che raccontano.
E per quanto io ami le parole, in certi casi preferisco rimanere nell’area della non comprensione. Ovvero della maggior possibilità.