La prima volta che vidi Dario Fo avvenne per “colpa” di mia mamma.
Ero bambina e dei suoi spettacoli teatrali visti in televisione ho il ricordo dell’allegria. Tanta e colorata. Frammista all’odore di casa. Con quella strampalata sigla/filastrocca di “Mistero buffo”, Ma che aspettate a batterci le mani, in cui riconoscevo le parti folli e teatrali che si agitano sottotraccia nelle persone, me compresa. Avevo l’idea di un surreale minestrone in cui potevano convivere in modo giocoso “i re dei ciarlatani” e “Napoleon di Francia”, “trenta lune di cartone” e il cuore a fare “seimila capriole”.
Più avanti ne colsi lo scherzo e lo sberleffo, il talento e il dileggio, il sacro e il profano. Insieme al lavoro profondo che necessita la leggerezza, per essere fruita senza essere vista.
Poi lo incontrai, il Giullare Dario Fo. Primi anni universitari, esame di Storia del Teatro da preparare, la figura di Arlecchino, Harlequin, “il re dell’inferno” da approfondire. E lui, Dario Fo, emanazione in terra di quel re saltimbanco, era a teatro con quella maschera. Ricordo lo spettacolo, ma soprattutto il dopo. L’attesa al camerino, l’ansia di incontrarlo, la parola alle corde. E poi eccolo.
La sensazione resta, anche nel ricordo, quella di allora. Era “tanto”, in tutto. Come se fosse necessario un “codice” per coglierlo appieno, per decifrarlo oltre il livello “letterale”.
E lì compresi che alcuni uomini sono una fortuna per quelli a loro contemporanei. Un’occasione per gustare frammenti di Cose Alte. Non sempre e del tutto comprensibili, ma ghiotte e indispensabili al nostro umano “viaggio”.