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Posts Tagged ‘America’

L’11 settembre 2001 iniziò il XXI secolo.

Come spiega il filosofo Mauro Carbone quel giorno di settembre ci siamo trovati a morire insieme, cioè a condividere uno shock collettivo in quanto testimoni oculari della morte di altri.  È questa esperienza che va indagata e ed è da questa esperienza che bisogna ripartire, perché in fondo il fatto di “essere morti insieme” tiene al suo interno la possibilità stessa di essere vivi insieme, cioè di aprire uno spazio di condivisione collettiva a partire dalla quale la collettività stessa si ridefinisce.

Ciò è particolarmente utile per le generazioni future. Di modo che diventi possibile una necessaria memoria transgenerazionale.

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Furono i 102 minuti che scolvolsero il mondo e segnarono l’inizio del nuovo millennio.

11 settembre 2001, New York, World Trade Center. Mattina dal cielo terso, Manhattan già indaffarata. Come sempre. Fino ad allora.

Alle ore 8.46 un aereo, il volo American Airlines 11 con a bordo 87 persone e 5 dirottatori di Al Qaeda, “entra” come una lama nella Torre Nord del WTC tra i piani 93 e 99. Esplosione, fumo, fiamme. E sconcerto. Si pensa ad un incidente. Ma è difficile pensare alle Torri Gemelle come ad un ostacolo non visibile. In poco tempo le televisioni di tutto il mondo aprono gli occhi di ciascuno su quei grattacieli tanto famosi.

Alle ore 9.03 un secondo aereo Boing 767, il volo 175 United Airlines con 60 persone e altri 5 dirottatori, si schianta sulla Torre Sud tra i piani 77 e 85. Altra esplosione e incendio. Incredulità e orrore in diretta mondiale. “Sembrava un film”, diranno tutti. Impossibile da sembrare vero. Eppure lo era. E si capisce che si tratta di un attacco terroristico all’America. Sul suo suolo, al suo cuore. Che si scopre fragile. Il Presidente Bush in visita ad una scuola, avvertito, per qualche minuto resta completamente attonito. Intanto l’incendio nelle Torri divampa. E alcune delle persone intrappolate nei piani più alti scelgono di lasciarsi cadere nel vuoto. Chi riesce fugge da quell’inferno. Dopo aver sceso migliaia di scale e incrociando in salita i Vigili del Fuoco, veri eroi di quel terribile giorno. Immolati al proprio dovere, pur sapendo.

Alle ore 9.37 un terzo aereo dirottato, il volo American Airlines 77, con 59 persone e 5 dirottatori, finisce contro il lato ovest del Pentagono, sede del Dipartimento della Difesa in Virginia, causando il crollo della facciata ovest dell’edificio.

Alle ore 9.59 un boato e la Torre Sud del World Trade Center implode su se stessa. Al suo posto una nuvola densa di polvere che corre dietro chi corre, facendo scendere una coltre nebbiosa su Manhattan. Ma non è vapore. È fumo, cenere, detriti, diossina, amianto.

Alle ore 10.03 un quarto aereo diretto a Washington, il volo United Airlines 93 con 40 persone e 4 dirottatori, precipita in Pennsylvania, a seguito di una eroica rivolta dei passeggeri.

Alle ore 10.28 si accascia su se stessa anche la Torre Nord, sparendo per sempre dallo skyline più famoso del mondo. Al suo posto una nuvola ancora più scura e pregna e frettolosa della precedente fa scendere la notte sugli isolati adiacenti coprendo e inghiottendo quanto incontra: auto, strade, persone. Solo il silenzio sembra poter coesistere con l’Apocalisse. Ground Zero sarà il nuovo nome del luogo in cui svettavano le Torri Gemelle di New York. Un ammasso impietoso di rovine, lamiere e vite umane. Un profondo buco al centro della Terra che solo il “Memorial 9/11” gli renderà poi il giusto tributo.

Quasi tremila vittime, circa seimila feriti. Senza contare le vittime successive, dovute a polveri e trauma.

A vent’anni di distanza da quell’incubo dove siamo? La risposta sembra forse in quel cerchio chiuso proprio vent’anni dopo intorno all’Afghanistan. Tornando, purtroppo, poco più in là della casella di partenza. Quasi abituati al terrore. Inaspettato e spietato. Come un prezzo da pagare al nuovo millennio.

Steve McCurry, 11 settembre 2001, New York – World Trade Center

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A vedere la cartina colorata dell’Italia in questi giorni sempre più strani, sembra di assistere ad un déjà vu di quelle campagne pubblicitarie Benetton anni ’90, in cui i colori si mescolavano provocatoriamente a situazioni sociali con esiti sfrontati e geniali.

Poi, abbandonati i ricordi, si ripiomba pesantemente nell’oggi. E quella gamma di colori caldi ed energici, giallo-arancione-rosso, diventano drammaticamente quelli che misurano la temperatura pandemica delle nostre città, delle nostre regioni, in fondo di ciascuno di noi.

E nonostante il quadro colorato male, ciascuno procede come se quelle tinte fossero poco più che un accidente poco incidente sulla propria routine, a meno di complete e tragiche chiusure. Come se ciascuno si ingegnasse, o illudesse, a rendere giallo pallido, quasi verde sogno, il proprio privatissimo orto, nonostante uno spazio esterno dai toni rosso carminio.

Ma la gamma Pantone, di questo passo, rischia di farsi seriamente esigua.

Ps: frattanto, a proposito di colori, restiamo in attesa di responsi intorno ai blu e ai rossi americani…

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L’autunno a New York è un vero classico.

Per respirare, almeno sometimes, quell’atmosfera magica è sufficiente (si fa per dire…) una New York cheesecake”.

Un pezzo della Grande Mela alle nostre latitudini.

Bypassando oceano e dazi.

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Esserci stata, in quel luogo di terrore e dolore e oggi di memoria, ha fatto virare la mia percezione di quella data ormai tristemente storica, 11 settembre 2001 New York City.

Ho respirato un perimetro di tristezza, in cui l’acqua scende verso il basso, fondamenta di quelle torri, un tempo gemelle come oggi le liquide vasche, “Reflecting Pools”, coi nomi incisi di chi è stato vittima di un atto terroristico impensabile.

In una città come New York in cui tutti camminano sempre veloci, il “9/11 Memorial” è invece un’area di lentezza e silenzio. I passi che lì muovi sono un viaggio verso il fondo di quel giorno tanto buio. Pur con il “Survivor Tree”, l’albero sopravvissuto a tanta distruzione, ad ergersi quale simbolo della vita stessa.

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Toni Morrison (Photo by Timothy Greenfield-Sanders/Corbis via Getty Images)

In tempi così oscuri per i diritti dell’uomo, ricordare Toni Morrison, prima donna afroamericana a ricevere il Nobel per la letteratura, è un imperativo categorico.

Discendente di persone schiavizzate, fin da piccola provó sulla sua pelle, non solo in senso metaforico, il significato barbaro della parola “razzismo”. Non è un caso che nel suo primo romanzo “L’occhio più azzurro”, indagando sul tema a lei caro dell’identità, narri di una bambina nera, povera e abusata dal padre, che sogna di avere gli occhi azzurri per somigliare ai bianchi.

La sua opera più famosa, “Amatissima (Beloved)”, Premio Pulitzer 1988, è il racconto di una giovane donna di colore che fugge dalla schiavitù prima dell’inizio della Guerra civile. Uccidendo la figlia piuttosto che farle vivere gli orrori della segregazione.

Storia che ricorda alquanto quanto sta avvenendo nel Mediterraneo, con l’avallo dei governanti dei Paesi detti “avanzati”. Forse nel senso di “residuali”.

Toni Morrison è stata parte del Grande sogno americano, quello della giustizia e dell’armonia tra i popoli. Le sue parole restano una lezione di saggezza per tutti noi. Soprattutto ora.

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Appena sentivo la sua voce, roca e magnetica, diffondersi via etere, correvo nella stanza da cui proveniva. Perché il modo di raccontare di Vittorio Zucconi mi incantava. Insegnandomi l’arte di rendere visivi e degni di ascolto i propri pensieri.

Le sue corrispondenze da Washington mi portavano pezzi d’America, nutrendo il mio immaginario anche delle cose minime. Forse le più necessarie.

Poi c’erano i suoi articoli, certo. Cronache perfette della latitudine in cui si trovava, della pagina di storia che respirava, delle abitudini che amava. Come quella di andare a cercare con frenesia, nelle notti calde d’estate, “Il lato fresco del cuscino”, facendolo diventare la sua ultima testimonianza letteraria.

Un maestro di giornalismo e di scrittura. Arguto, ironico e suadente nella capacità di visionare e sbobinare gli eventi nel loro farsi. Anche ripescandoli nella memoria: “Era il gennaio del 1990. L’URSS di Michail  Gorbačëv si stava sfarinando come una torta sbrisolona sotto le dita della storia e Cuba rischiava di franare con il disfacimento del socialismo reale. […] Era l’agonia di un popolo che da lontano, dai racconti, dalle immagini, mi era sempre apparso come un popolo bambino e ingenuo, sbruffone e tenero, oppresso e orgoglioso, sballottato da una storia troppo più grande, arcigna e feroce di lui. […] Per esorcizzare la paura, mi ero portato un talismano, un portafortuna pesante sette chili e due etti. Era il primo computer Macintosh Apple trasportabile, perché definirlo portatile sarebbe stata un’iperbole.”

Difficile fare a meno dei suoi racconti…

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“Mentre ero lassù (guardando giù)” – Photo by Ester Maero

Ad un mese dalla mia avventura in terra newyorkese, tento di capire quanto abbia mutato il mio paesaggio interiore muovere i primi passi nel Nuovo Mondo.

Cosa ha significato per me mordere, gustare, digerire, assimilare la Grande Mela?

È stato l’incontro con un mondo in continuo movimento. Rigenerante però, mai delirante. Per la sensazione che tutto può accadere, in qualsiasi momento. E che ogni cosa forse è possibile.

Provando l’ebbrezza di sentirsi al centro del mondo insieme a chi ti sta intorno, in completa integrazione e con un culto speciale per la libertà. Senza mai invadere l’altro. Usi, cibi, costumi, parole a convivere pelle a pelle, in un energetico melting pot.

Un luogo in cui è forte l’esperienza di straniamento, quasi vivessi ogni ora su un set cinematografico. Che è pur vero, perché in ogni dove vedi pellicole già viste sbobinarsi: “Manhattan”, “Taxi driver”, “Harry ti presento Sally”, “Colazione da Tiffany”, “C’è posta per te”, “Il maratoneta”, “C’era una volta in America”.

Come se, anche essendoci dentro, in New York City, non ci credessi mai del tutto. Lo descrive bene il giornalista  del “New Yorker” Adam Gopnik: “Perfino quando ci stabiliamo qui a New York, in qualche modo questa città sembra sempre un luogo a cui aspirare”.Tra grattacieli, hot dogs, frenesia, potenzialità.

Uno stato della mente, come ho letto un giorno in un caffè. Uno skyline di energia emotiva.

“Mentre ero là (guardando da qua) – Photo by Ester Maero

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“Barbie” – Andy Warhol, 1985

Ancora a proposito di donne.

La mitica Barbie ha appena compiuto 60 anni. Ad inventarla, curve da pin-up e nome della figlia, Ruth Handler, la moglie del fondatore della Mattel.

In ventotto centimetri di plastica sogni di generazioni di bambine e anticipazioni di moda e costume.

Iconica fashion doll, sempre al passo con i tempi, Barbie ha rappresentato fin dai suoi esordi una donna moderna, indipendente e sicura di sé. In cui riconoscersi, superando uno stereotipato e antico modello femminile. E aprendo così l’immaginazione di ogni bambina ad un futuro accattivante e sfaccettato per sé stessa.

Da autentica girl power. Seppure patinata. Tanto è un gioco, bello per quello. La realtà alla prossima puntata.

La Barbie di Karl Lagerfeld

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«La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo».

Sergio Marchionne, manager (1952–2018)

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