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Posts Tagged ‘27 gennaio 1945’

Memoriale di Dachau

La fatica è quella dei sopravvissuti, ormai davvero pochi purtroppo. La fatica di ripercorrere quell’orrore, che tanto continua a devastarli. È sufficiente sentire le parole di Sami Modiano, 92 anni e tanta fragile forza nel dire quanto di sé è ancora chiuso dentro l’orrifico Campo di Sterminio di Birkenau. Insieme a quelli che laggiù, nella ferita più cupa dell’umanità, sono rimasti. Tra cui suo papà Giacobbe, uno sprone per lui affettuosissimo, e l’amatissima sorella Lucia. E gli occhi di Samu si velano, ricordando ed essendoci, di lacrime e di perché. Di perché sulla Shoah di un popolo, di perché sulla sopravvivenza sua.

Il dovere è il nostro. Il dovere di raccontare, “tatuandoci” dentro i ricordi dei sopravvissuti, affinché essere i prossimi testimoni della Shoah. Trasmettendo così alle nuove generazioni, perché l’uomo non dimentichi l’abiezione di sé, il fondo della propria barbarie. Per evitare che tale immane colpa, di noi tutti, diventi qualche “storta sillaba” risolta in poche righe sui libri di storia, come amaramente paventato dalla senatrice Liliana Segre. Di modo da ricordarci sempre che l’Indifferenza, quella scritta a lettere cubitali al “Binario 21” di Milano, é un virus latente e subdolo che si insinua facilmente nel nostro modo di agire. Rischiando di perpetrare quella dolorosa divisione tra “Sommersi” e “Salvati”.

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“Lezioni di persiano” è un film di Vadim Perelman basato su un racconto dello scrittore Wolfgang Kohlhaase, “Invenzione di una lingua”, che ci ricorda quanto la memoria possa salvarci. Attraverso le parole che, anche se inventate, possono ricordare coloro che sono stati sterminati nell’orrore della Shoah.

Ricordare sempre è dovere di ogni umano, anche perché, come sosteneva Primo Levi, “La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia.” E i fatti di cronaca, davvero inquietanti, di questi giorni, ci impongono tale dovere civile ed esistenziale.

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Disegno di Thomas Geve

Scrive Thomas Geve in “Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz”: “Avevo tredici anni quando fui mandato ad Auschwitz con mia madre. Era la fine di giugno del 1943. Poiché dimostravo più della mia età, ebbi la fortuna di essere considerato abile al lavoro. I bambini sotto i quindici anni erano inviati direttamente alla camera a gas. A parte un altro ragazzo, uno zingaro di nome Jendros, allora ero il più giovane dei 18000 internati nel campo di Auschwitz I. Avevo il numero di matricola 127003. Mia madre fu mandata a Birkenau e lavorava alla fabbrica «Union». Purtroppo non sopravvisse. Dopo l’evacuazione di Auschwitz sono stato nel campo di Gross-Rosen, nel gennaio del 1945, e poi a Buchenwald, dove sono stato liberato l’11 aprile 1945. Prima di quel giorno non avevo mai conosciuto la libertà.

Ero gravemente debilitato e avevo perso le unghie dei piedi per l’attrito contro gli zoccoli di legno e per la denutrizione. Troppo malridotto per lasciare la mia baracca, il blocco 29, quello dei prigionieri antifascisti tedeschi, vi rimasi più di un mese dopo la liberazione del campo. Fu allora che eseguii una serie di settantanove disegni miniaturizzati, a colori, delle dimensioni di una cartolina, per illustrare i vari aspetti della vita in campo di concentramento. Li feci essenzialmente con l’intento di raccontare a mio padre la situazione cosi com’era realmente stata.”

Come disse Primo Levi, “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”

Disegno di Thomas Geve

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Disegno di Thomas Geve, fanciullo ebreo di Stettino deportato ad Auschwitz all’età di 13 anni

Ricordare la Shoah. Un dovere morale, storico, civile.

Traccia mnestica indelebile per evitare che quell’orrore indicibile si ripresenti. Attraverso un rigurgito, una sopraffazione, una negazione.

Di modo che certi disegni infantili si conservino per sempre, ma non sia più possibile che alcun bambino li pensi.

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Chissà perché la felicità è sempre più breve del dolore” si chiede il piccolo protagonista di “Un sacchetto di biglie” in uno degli ultimi momenti luminosi trascorsi con la sua famiglia.

Sono ancora tutti insieme sulla spiaggia di Nizza a godere del sole. Di quello che splende in cielo e di quello che pulsa dentro ciascuno di loro mentre respirano insieme la medesima aria salsa. Un’aria in cui il sale è ancora quello del mare e non quello venefico del male del mondo che di lì a poco appesterà l’umanità intera.

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La nomina di Liliana Segre a senatrice a vita muove riflessioni sul legame imprescindibile tra forma e contenuto.

Qui la forma, il titolo di componente del Senato italiano, è alta e finalmente giunge in chi, Liliana Segre, è da sempre portatrice di un contenuto altissimo, vibrante di testimonianza diretta su quell’orrore indicibile che è stata la Shoah. E non solo, perché la neo senatrice Segre ha speso la propria esistenza per raccontare ciò che è stato, in nome di una memoria sempre viva. Il “Binario 21” della Stazione di Milano non è che l’esito pubblico più evidente.

Di fronte a tale, limpida e superiore, corrispondenza tra forma e contenuto non si può omettere di pensare a quanto lo Stato italiano, anche quando attento alla forma, sia glissante se non silenzioso di fronte al dilagare di certi contenuti. Non poi tanto diversi, come ha ricordato Segre, da quelli che hanno condotto all’Olocausto, e ancor prima alle leggi razziali. Sottoscritte anche dallo Stato italiano. Sob.

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anita b.

Lascia Auschwitz fuori da questa casa“, è la raccomandazione che viene fatta ad Anita quando, uscita dal lager, viene accolta da parenti.

Ed è ciò che è accaduto allo stesso regista Roberto Faenza al momento della distribuzione del suo ultimo film, Anita B., ispirato al romanzo autobiografico Quanta stella c’è nel cielo di Edith Bruck. “Mi è bastato accennare al fatto che la protagonista del film fosse una giovane sopravvissuta di Auschwitz ed ecco che le porte delle sale cinematografiche si sono rinchiuse”, ha dichiarato il regista alla presentazione alla stampa della sua pellicola, aggiungendo: “Abbiamo trovato difficoltà ad uscire in sala. Non mi è mai accaduto di uscire con 15-20 copie: è offensivo verso il pubblico“.

Auschwitz tabù? Per Roberto Faenza l’Italia continua a restare “in un tranquillizzante oblio, una rimozione tale da impedirle di lavorare sulla memoria come dovrebbe, questo rispetto all’Olocausto ma anche ad altre stragi o fatti atroci. Colpevole a mio avviso è la televisione che è nemica della memoria.

Di fatto il film è il racconto di un ritorno alla vita, accompagnato dalla necessità-dovere di ricordare. Un film sulla memoria, quella traccia mnestica che ci permette poi di lasciare altre successive tracce. Come pensa tra sé e sé Anita nel finale: “Sono serena perché viaggio verso il passato con un solo bagaglio: il futuro“.

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