Paolo Borsellino dopo l’omicidio del suo amico-collega Giovanni Falcone continuava a ripetere “Adesso tocca a me”. Ed è sconcertante che sentisse così prepotente, incalzante ed improcrastinabile il ticchettìo dell’orologio sulla sua fine imminente. Senza che alcuno, nelle stanze istituzionali, agisse per fermare concretamente quelle lancette.
E così il 19 luglio 1992, a 57 giorni dalla strage di Capaci, l’indicibile avvenne. Un’autobomba con cinquanta chili di tritolo sventrava nella sua esplosione via D’Amelio a Palermo col suo carico umano, il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Tanto resta oscuro. Ed inquietante. A partire dai depistaggi. Posti in opera per occultare altre regie, oltre quelle mafiose, che il giudice Borsellino, sempre più solo, stava comprendendo. Quelle trame di cui forse nella sua “agenda rossa”, subito scomparsa dal teatro della tragedia, aveva intuito e appuntato la devastante portata che potevano avere per l’intero Paese. Decretando così, peraltro consapevolmente e con immane coraggio, la propria fine.
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