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Archive for giugno 2022

Anche ora che non è più terreno, non posso che pensarlo così Raffaele La Capria, nell’azzurro dei suoi amori infiniti: la moglie Ilaria (Occhini) che lui definiva il premio più bello della sua vita, e l’isola di Capri il cui nome diceva iscritto quasi per magia nel suo.

Quanto devo al mio scrittore-guida Raffaele La Capria…

Mi ha folgorata con la luminosità e la fugacità della “bella giornata“, “un’immagine primaria” e precaria, di “ossessiva ineffabilità”.

Mi ha condotta, attraverso la sua amata isola azzurra, nella verticalità dei fondali, metaforici e reali, dove il mondo è acqua e trasparenza e gioia (“Nuoti e senti l’azzurro-verde-turchese nelle infinite sue vibrazioni, lo senti risuonare dentro come una scala musicale“).

Mi ha insegnato a riconoscere lo “stile dell’anatra“, in apparenza semplice e leggero sulla superficie dell’acqua, in realtà frutto di un intenso zampettare nella profondità, perché è quello che “non si lascia trasportare dalla corrente”. 

Mi ha incantato associando la letteratura all’arte del tuffo, che per essere bello deve essere eseguito “senza sforzo, e se lo sforzo c’è, non deve apparire” (ancora l’acqua, ancora l’anatra…).

Mi ha reso consapevole, attraverso “La lezione del canarino” (quella forte suggestione provata da bambino quando un cardellino si posò sulla sua spalla, suscitando in lui il desiderio di ricreare le emozioni attraverso la scrittura), di quella urgenza, provata fin da piccola, di scrivere intorno a quanto vedevo/provavo.

Mi ha regalato pagine dense di scrittura azzurra. Per la sua innata capacità di introspezione nei sentimenti e negli eventi, con uno sguardo “altro” e parole alate, come solo i Poeti.

Che tristezza e che fatica doversi accomiatare… Ero sempre in attesa di un suo nuovo scritto, anche solo un pensiero, perché era visione, chiara seppur in controluce, del mondo. A consolarmi le sue parole per tutti noi, a cui attingere per riconoscere, anche a posteriori, “la bella giornata”. Grazie Dudù.

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Quanto bene fa il bagno di mare!

Una cascata azzurra di endorfine a mondarci dal buio del mondo…

Ricordando le nostre salse e minime origini.

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È proprio difficile da digerire la mortalità. Perché ti costringe a prendere atto che il gioco è concluso, che chi ti faceva pensare, divertire, sognare, non è più di tale umana e finita dimensione.

Jean-Louis Trintignant per tutti noi spettatori è stato uno splendido regalo. Da scartare, per pensare, divertirci, sognare. Lo è stato col film di Dino Risi “Il sorpasso”, per cui la scena cult in auto con Vittorio Gassman è da incartare come un cioccolatino per chi camminerà in futuro sulla Terra. Lo è stato con il mitico “E Dio creò la femmina” di Roger Vadim, in cui dà luce in controcanto ad una Brigitte Bardot non ancora Bardot, in una Saint-Tropez non ancora Saint-Tropez. Lo è stato in una pellicola di Claude Lelouch, “Un uomo, una donna”, lui l’uomo, Anouk Aimée la donna, in amore forse per sempre sulle note del famoso tema musicale “Shabadabada”.

Ma il “mio” Trintignant è legato a tre film meno citati, eppure notevoli. In uno, “Finalmente domenica!” ultimo film del geniale François Truffaut, rimane impresso il suo ruolo da protagonista, persino in ombra (ma voluta, e in ciò era bravissimo) rispetto ad una intraprendente Fanny Ardant. Nel secondo torna curiosamente la “domenica”, ed è “La donna della domenica”, trasposizione filmica di Luigi Comencini del romanzo di Fruttero & Lucentini, in cui Trintignant è l’amico della protagonista, Jacqueline Bisset, con cui indaga per risolvere il giallo. Da annali la scena finale in una Torino ferragostana deserta in cui loro due discutono in taxi sulla pronuncia dello stesso: “Si dirà tàxi con l’accento sulla A o tassì con l’accento sulla I?”. Infine in un film considerato a ragione tra i più belli della storia del cinema, “Film rosso” dalla trilogia “Tre colori” di Krzysztof Kieślowski in cui interpreta magistralmente i dubbi etici di un giudice in pensione, imparando a condividerli con chi il caso (o il destino?) pone sulle sue orme.

Un affettuoso grazie, da spettatrice, a Jean-Louis Trintignant.

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Il fiume Po, foto di Paolo Panni

Il grande fiume boccheggia e indietreggia. Sempre più povero di acque, già fin dall’origine del suo cammino, ormai arranca per arrivare in mare. Diventando salato prima dell’incontro.

Adesso il Po, per ricordarci come fosse, siamo costretti a guardarlo in foto del passato. Quando il Grande Fiume era ampio, verde, tanto. Portatore di una civiltà fluviale che è quasi estinta, insieme alle sue leggende e ai suoi gesti di cura per il fiume.

E ora che i cambiamenti climatici ci presentano il conto, salato appunto, quel conto che credevamo sempre di là da venire, guardiamo increduli la sofferenza della natura. Comprendendo, forse solo ora, che è anche la nostra.

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Abraham Yehoshua, scrittore israeliano di pace insieme ad Amos Oz e David Grossman, era solito dire “ho vissuto per scrivere“. E l’ha fatto fino al termine del suo viaggio terreno.

Ne “Il lettore allo specchio” ha spiegato in modo magistrale la differenza tra il “come” e il “cosa” nella scrittura, una lezione non solo per chi si inerpichi sulle vette dello scrivere, ma anche per lo spettatore/lettore di quei paesaggi. “Secondo me – affermava Yehoshua – la domanda principale è “come” qualcosa succederà, e non “che cosa” succederà. Riuscire a trattenere l’attenzione di chi legge sul come e non sul cosa è un problema che deve affrontare qualunque scrittore. E’ nei libri gialli che per lo più ci si chiede soprattutto che cosa succederà, ma dopo che si è finito il libro non ci si pensa più, mentre in altri tipi di romanzo si sa già che cosa avverrà e la domanda essenziale verte sul come. E’ lo stesso nella vita reale; nessuno si preoccupa di che cosa faremo a mezzogiorno, perché sappiamo già che andremo a pranzo. Quello che vogliamo sapere del nostro futuro è come sarà. L’equilibrio fra il che cosa e il come è l’arte dello scrittore.”

Grazie Yehoshua per avercelo spiegato così bene.

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Il “disco” comincia a risuonare, sempre uguale e ormai desueto, nell’ultima settimana di scuola. Ripetendosi poi, vero tormentone estivo, per tutta la stagione caliente. “Che pacchia, adesso per voi docenti cominciano tre mesi di vacanza! Beati voi!“.

Ricominciamo.

1. Se tanto piace, perché non farlo? Accomodatevi, con tanti cari auguri, soprattutto per la tenuta fisica e la stabilità mentale. Specie in tempo post-pandemico, in cui la slatentizzazione di fragilità e aggressività pregresse è ormai elemento noto e dimostrato. Spesso sulla pelle, e non in senso figurato, dei docenti.

2. Tra chiusura dell’anno scolastico, scrutini, incontri coi genitori, supporto agli studenti, collegi docenti, varie ed eventuali, scorre via come un fiume in piena il bel mese di giugno. E fortuna che le giornate sono lunghe (oltreché calde, quando non torride) così c’è tutto il tempo per espletare le pratiche burocratiche, dai programmi svolti alle relazioni sulle classi. Qualche piacevole ricorso su una o più bocciature non manca mai, anzi ora lo si fa anche per le materie date in debito da colmare nei mesi estivi. Del resto perché i ragazzi dovrebbero assumersi le proprie responsabilità su quanto non studiato o non compreso, quando anche gli adulti sono ormai in continua sottrazione a riguardo?

3. E siamo a luglio, mese in cui l’Esame di Stato (la “vecchia” maturità, sob!) giunge al suo apice di calore con gli orali che, va ricordato a chi punta a tale “privilegiato” lavoro, non prevede alcuna aria condizionata negli ambienti preposti all’espletamento degli stessi. Eppure i docenti, secondo la vulgata corrente, nei giorni più afosi di luglio sono in vacanza. Già, ma non tutti, si sente replicare, sono impegnati negli Esami di Stato. Vero, lo sono però per i corsi di recupero estivi, o per l’ultima intuizione del Ministero, il “Piano Scuola Estate” attivo da giugno a settembre, per rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari, sostegno della relazionalità, etc. Con buona pace di chi invidia l’estate lunga dei professori.

3. Giungiamo così al mese di agosto, in cui lo sfinito e ormai boccheggiante prof ha diritto, come tutti per legge, ai suoi giorni di “ferie”, non propriamente “vacanza”. Perché l’insegnante (che lamentazione però…) non dimentica mai il proprio lavoro/missione, e i suoi studenti restano, come è naturale e auspicabile, nella sua testa e nel suo cuore. A volte anche nelle sue mail, perché quando lo studente scrive, anche d’estate, il prof c’è, si sa. Per un consiglio, uno sfogo, un dubbio. Su un libro, un amore, un dolore. E comunque, tra una nuotata e un tramonto, il prof comincia a prefigurarsi l’anno che verrà, i percorsi didattici che affronterà coi “suoi” studenti. E già pensa a quanto “la bella estate” li avrà cambiati. Consegnandoli a settembre al prof, in parte nuovi, ma ancora “suoi”.

Se a qualcuno sembrano ancora tre mesi di “vacanza”, è utile forse ricordare che “vacare” vuol dire “mancare al consueto”, “sottrarsi al quotidiano”. Difficile per un docente, perché la “scuola” resta con lui comunque. Anche d’estate.

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Quattro giorni di festeggiamenti per i 70 anni di regno della Regina Elisabetta II.

Una folla oceanica di sudditi, e non solo, per omaggiare un regno lungo decenni. E Lei, The Queen, sempre al suo posto nonostante l’età, consapevole del ruolo e di quanto rappresenta.

Sul trono dal lontano 1953, quando il “suo” Primo Ministro era Winston Churchill ed era Sommo Pontefice il Papa Pio XII. Ovvero la Storia. Capace però di rimanere sempre dentro il tempo presente, diventando iconica. Come in questi giorni, condividendo il tè delle cinque col famoso orsetto Paddington. Giocando così in modo autoironico con la propria immagine. Da vera Regina.

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“La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.”

Luigi Sturzo

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