Wassily Kandinsky, “La grande porta di Kiev” – 1930
Da non crederci.
Ancora una volta un uomo solo al comando decide di invadere nottetempo un Paese sovrano nel cuore dell’Europa. Dando inizio ad una cupa escalation, che rievoca tristemente il secolo breve.
Bombardamenti, civili in fuga, sirene d’allarme, distruzione, morte. E il rischio, purtroppo reale, che lo scenario si allarghi a dismisura.
Sfilano decine di carrarmati in un luogo d’Europa, l’Ucraina, che ci appare lontano, ma neppure troppo.
E per quanto il conflitto russo-ucraino sia uno scontro diplomatico-militare in atto tra Russia ed Ucraina fin dal 2014 per lo status di Crimea e regione del Donbass, e per la possibile adesione dell’Ucraina alla Nato, ora i pezzi sulla scacchiera sembrano giunti al redde rationem.
Che strana guerra. Di posizionamento, di economie, di comunicazione. Ma alla fine, come in ogni scontro, di uomini. Armati che combattono per soldi e ideali, civili che sfollano dai loro luoghi d’affetto.
E allora tornano in mente i versi di una canzone, all’apparenza leggera, di Highsnob e Hu: “Questa è una guerra in cui si perde sempre / e io perdo la testa come Oloferne“.
Ma è nel suo titolo, “Abbi cura di te”, la ricetta di sempre. Purtroppo disattesa, quasi sempre.
Alla fine hanno vinto Mahmood e Blanco, già vincitori in pectore fin dalla prima serata, con la canzone “Brividi”, in un’edizione del Festival che tale è stata, da brividi appunto, a partire dagli ascolti record ma non solo.
È stato definito il “Festival della gioia” (ritrovata), anche per gli abbracci scambiati sul palco: tanti, voluti, sentiti. Un chiaro rito liberatorio, teso a propiziare un nuovo tempo di riavvicinamento dopo i due anni di solitudine pandemica. Anche se tutti noi, che il palco non lo calchiamo, siamo ancora ritrosi (forse perché ligi alle regole?) all’effusione libera.
Diverse poi le tematiche culturali e politiche ricordate sul palco: la parità di genere, il conflitto razziale, l’inclusività, la diversità, la fluidità sessuale, la libertà d’espressione, il diritto di satira. Anche attraverso ospiti musicali di peso, quali Mengoni, che ci ricorda di mantenere alta l’attenzione sul bullismo, e Jovanotti, che recita in modo intenso la poesia “Bello mondo” di Mariangela Gualtieri. E fa vincere (facile?) Morandi nella serata delle cover. Serata che scivola tra le dita, quasi polvere di stelle, con brani di un tempo sempre presente ed alcune interpretazioni magiche.
E intorno le “Farfalle” della ritmica italiana ad incantare, e il Fantasanremo a debordare, con salti e flessioni praticate sul palco dallo stesso presentatore. Per fare punti, soprattutto nel cuore sentendoci leggeri, per volare in libertà.
E ancora l’omaggio a Raffaella Carrà, un tributo legato all’anteprima mondiale del musical “Ballo Ballo” , tratto dal film “Explota Explota”. Un tuffo al cuore e malinconia a strascico: la voce di Raffa, inconfondibile, e le sue mosse, indimenticabili, attraverso una controfigura di spalle. Un amarcord di infinito rimpianto.
Trait d’union del brioso caravanserraglio il presentatore/direttore artistico Amadeus, sempre sul pezzo, elegante e ironico, misurato e sensibile, coadiuvato nella penultima serata da una spumeggiante Maria Chiara Giannetta (notevole e divertente il dialogo con parole di canzoni sanremesi insieme al collega Maurizio Lastrico) e nella finale da una Sabrina Ferilli che interpreta se stessa, nessun artificio, una carica naturale di simpatia e profondità.
E infine il podio: Morandi terzo con “Apri tutte le porte” già destinata ad essere tormentone di allegria, Elisa seconda con una canzone difficile, “O forse sei tu”, che solo lei può permettersi, e Mahmood e Blanco primi con “Brividi”, già record di ascolti su Spotify e pronti a veleggiare per l’Eurovision Song Contest 2022, da giocarsi in casa a Torino. Chissà…
Tutto è ricominciato da dove era finito. Ovvero Maneskin.
Cresciuti, magnetici, superlativi. Con orizzonti ormai internazionali, eppure con uno sguardo riconoscente al tempo/luogo da cui sono partiti. E con la capacità di emozionarsi ed emozionare il pubblico. L’intensa e delicata “Coraline” ne è stata la dimostrazione.
Il filo complesso di memoria con lo scorso anno, senza pubblico e in piena pandemia, si è mantenuto in apertura con Amadeus e Fiorello, sua fidata spalla. Ma è stato solo un frame.
Paillettes e leggerezza hanno subito avuto la meglio, anche perché quest’anno è nuovamente platea gremita (seppur mascherata e tamponata), e la voglia di ballare/ricominciare è tanta, con diverse canzoni che incitano a farlo, da Dargen D’Amico a Ditonellapiaga e Rettore, nonché ritornelli che entrano in testa e non escono più, da Morandi (“Apri tutte le porte/gioca tutte le carte/fai entrare il sole“) a La rappresentante di lista (“Con le mani, con le mani, con le mani, ciao ciao”).
E da una serata all’altra ci rendiamo conto che c’è molto di nuovo in questo Sanremo, a partire dagli incredibili ascolti, forse perché abbiamo davvero bisogno di “musica leggera, anzi leggerissima”, come ci era già stato prospettato lo scorso anno.
Drusilla Foer, elegante e ironica, è stata poi la carta che ha sparigliato, regalando spessore di contenuto in guanto di velluto. Il suo sensibile e intelligente monologo sull’unicità di ciascuno (peccato l’ora tardissima) ha sdoganato il concetto ormai vecchio di “diversità”. Così come sottolineare, l’omaggio di Saviano per il trentennale di Capaci, che ricordare è operazione del cuore, serve forse a smuovere qualche coscienza dall’apatia di un tempo galleggiante.
E poi gli artisti, un autentico melting pot canoro e anagrafico, sorretti da una superlativa orchestra, con alcune canzoni musicalmente nuove e interpretazioni da podio. Da Elisa, sempre magica, a Ranieri con la sua toccante “Lettera di là dal mare”. Ma una su tutte, quella di Mahmood e Blanco, è stata da “Brividi”. Per intensità, timbrica e messaggio.
Siamo ora in attesa di altri guizzi (come non ricordare la poesia in musica di Cremonini?) nella serata delle cover e in quella finale. I complimenti del Presidente Mattarella ad Amadeus sono il miglior viatico per la chiusa.
Ps: e che dire del “Fantasanremo”, in cui i cantanti cercano di fare punti, tra parole in codice, baci e fiori regalati? Un gioco nel gioco. Quello di cui necessitiamo, almeno per qualche ora.
“Cara Monica, con te se ne va una grande attrice italiana. Sei stata un’icona e una musa eterea per Antonioni e un’attrice dotata di vis comica unica per Monicelli e tanti altri registi di commedia, dove eri una vera Regina“. Così Aurelio De Laurentiis su Twitter per dare il suo addio a Monica Vitti. Ricordandone il talento immenso, unica donna tra i “colonnelli” della commedia italiana, Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi.
Premiata, amata, ricordata sempre. Nonostante quel suo scivolare da tempo in un luogo sfumato. Quello che aveva sentito arrivare e aveva raccontato nel suo libro “Sette sottane”, da lei definito una sorta di “autobiografia involontaria“.
“Quando cammino sento la presenza di quei fatti che sono tutta la mia storia, – scriveva Monica Vitti nel 1993 – sento la loro presenza e i loro passi poco distanti. Vogliono vedere dove li porto, dove andranno a finire. Hanno caratteri pesi e colori diversi, a volte si fidano di me, a volte no. Io scivolo nei vicoli, sperando di perderli. Ma li ritrovo in fondo alla strada, con le braccia conserte, che ridono come pazzi. I fatti sono presuntuosi, pesanti, invadenti. Le emozioni sono leggere e indipendenti. Ti ballano intorno e sono pronte a distrarsi al primo colore“.
Emozioni che ci ha regalato a iosa, restituendocele intatte ogni volta che il suo volto bello, il suo sguardo magnetico, la sua voce inconfondibile riappare sullo schermo. Magia pura, dono eterno.
Grazie Monica. Che levità ti accolga. Tra “Polvere di stelle”…
“Ha toccato! Ha toccato in questo momento il suolo lunare“.
Il nome di Tito Stagno resterà per sempre legato alla storica sera del 20 luglio 1969, quando raccontò ai telespettatori italiani lo sbarco sulla Luna di Apollo 11. E il suo legame con quella pionieristica impresa era rafforzato dall’anno di nascita, il 1930, che Tito Stagno ricordava con orgoglio avere in comune con gli astronauti-eroi della storica spedizione, Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins.
Giornalista preparato, meticoloso, elegante, e “sul pezzo” come si dice oggi. Simbolo di un mondo in bianco e nero, ma con un entusiasmo di narrazione che rese la Luna colorata e molto vicina ai terrestri.