Neppure il tempo di riprendere fiato e riposizionarsi in coda per la dose booster del vaccino, che entra in scena “omicron”, ultima arrivata (dal Sudafrica) variante Covid. Il che ci fa provare il senso frustrante e distopico del loop, ossia del ciclo continuo, della scena reiterata, della giostra che gira sempre uguale, del cerchio da cui non si esce. Come dalla “o” di “omicron”, appunto.
Dicono i saggi che la lezione, se non compresa, si ripresenta uguale. Forse è tempo di considerare la precarietà quale naturale compagna degli umani passi, come ben suggerisce il filosofo Umberto Galimberti ne “Il libro delle emozioni”:
“Le pandemie dei secoli precedenti, con cui si fanno tanto i confronti, erano perlopiù ‘regionali’. Dobbiamo renderci conto che il Covid, invece, è la prima pandemia dell’era iperconnessa e globalizzata: questo vuol dire che il virus ci accompagnerà ancora per molto tempo, la sfida per l’uomo sarà adattarsi. Noi siamo abituati a essere assicurati contro qualsiasi imprevisto, ma la vita non è assicurata contro nulla: dovremmo consegnarci alla precarietà dell’esistenza, accettando che oggi siamo ancora più precari che nel passato”.
Quel senso di precarietà che ci fastidia, perché ci ricorda che non tutto si può controllare, bensì dipende dalla “preghiera”, dalla “grazia”, dalla “volontà di altri”. Proprio quanto la parola “precario” racconta.