Tergiverso, prendo tempo, rimando.
Perché scrivere di Raffaella Carrà al passato mi risulta alquanto difficile e doloroso. Farlo implica infatti tagliare il filo del palloncino colorato che mi lega al tempo della spensieratezza inconsapevole. Quello in cui bambina (ne avevo già scritto) ripetevo fino allo sfinimento, insieme a mia sorella, i passi dei suoi balletti, sperando che anche il mio caschetto tornasse subito a posto come il suo firmato Vergottini. E le sue canzoni sprigionavano immediatamente bollicine di felicità istantanea. Da bambina, da ragazza, da adulta. Fino all’altro ieri, a quella notizia-pugno che ti stende il cuore a terra e i pensieri volano altrove cercando di trattenere quanto è stato.
Sarà arduo sentire ancora il frizzo delle bollicine aprendo una di quelle mitiche “lattine” di Raffaella Carrà, in cui energia inesauribile e gioia sincera ti arrivavano dentro in modo talmente vigoroso da contagiarti, regalandoti appunto l’ebbrezza di una felicità immediata.
Grazie Raffaella, per i doni che ci hai fatto, per la leggerezza che hai emanato. La terra non può che esserti lieve.