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Archive for Maggio 2021

“Eterna fanciulla danzante” la definiva Eugenio Montale, ammirando le sue movenze eteree. E Carla Fracci, La Danza per antonomasia, è stata capacità altissima di racconto interiore attraverso il corpo che si libra. Con eleganza innata e rigorosa tecnica. Rendendo mosse e sublimi le emozioni a chi la guardava. Restandone ammirato, rapito ed incantato. Potendola definire di diritto “La Danza”.

Ps: quale strana e montaliana “coincidenza degli opposti” quella che ha visto il termine del viaggio terreno dell’étoile Fracci a pochi giorni dalla tragedia della funivia del Mottarone. Come se la “Grazia” fosse venuta meno di fronte a tale immane “Dis-grazia”.

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Di fronte alla tragedia della funivia del Mottarone ci siamo sentiti sperduti.

È l’incredulità dell’uomo davanti alla propria fragilità e finitudine. Tanto più crudele quando si evidenzia all’improvviso, nella giovane età e in un tempo di spensieratezza come la vacanza.

Nel tentativo di domare l’angoscia più atavica ci appelliamo al concetto di “fatalità”, destino, propriamente “la parola della divinità”, e quindi “la sorte irrevocabile fissata fin dal principio a cui non ci si può sottrarre”. È fatalità un fulmine che cade su una spiaggia a ciel sereno. Quindi ciò che è inatteso e inevitabile.

La caduta rovinosa della cabina della funivia, con il suo portato umano che non era meramente un numero ma vite, storie,  cammini, progetti, divenire (una tristissima “Spoon River”…), era sicuramente inattesa, ma non inevitabile. Ovvero, le variabili che potevano essere teorizzate per tale tragico evento riguardavano componenti meccaniche, quindi quelle sottoposte al controllo umano. A cui può però sempre sfuggire qualcosa, caso che rientra nel cosiddetto “errore umano”. Una dimenticanza, una svista, una sottovalutazione, un controllo non compiuto. Ma la ridondanza di sistemi di sicurezza permette all’uomo di autocorreggersi.

C’è infine il caso in cui l’uomo decide invece scientemente di eliminare l’autocorrezione, pur sapendo che ciò potrebbe avere conseguenze, anche fatali. Per cui, invece di mantenere in azione il freno di emergenza, come logica e responsabilità vorrebbe, si sceglie di inserire un forchettone che blocchi il meccanismo frenante, nonostante da quello possa dipendere, in caso di emergenza, la sopravvivenza delle persone che sono su quel mezzo. Si tratta di “dolo”, per i latini “inganno”, ossia “la volontà cosciente di infrangere la legge”. E la vita.

Meschino infine il fine di tal dolo: evitare un fermo manutentivo della funivia e quindi subire un mancato incasso. Decretando così, diabolus ex machina, la fine per chi era ignaro che il filo della propria esistenza fosse letteralmente in mano a chi aveva deciso che gli introiti di giornata fossero la voce più importante. In modo ingordo e indecente, privo di qualsiasi attenuante.

Facendoci sentire così ancora più sperduti.

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Noi siamo Capaci. Perché tutti noi italiani portiamo inscritto nel profondo la tragedia di Capaci.

Chi c’era, ricordando esattamente dove fosse in quel momento e il buco nero che si aprì dentro, riverbero di quella orrifica detonazione che portò via, su un’autostrada siciliana in un pomeriggio di fine maggio di 29 anni fa, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Chi non c’era, sentendone il racconto e coltivando una coscienza critica intorno alla mafia e a tutti quelli che l’hanno combattuta con determinazione e coraggio, sacrificando anche la propria vita.

Una domanda è però quella che ci accompagna nel tempo, nonostante molto sia stato smosso dal terreno mafioso. Siamo autenticamente “capaci”, come popolo, di far vivere tanta eredità, sottraendoci ogni giorno, anche nei comportamenti, alla cultura dell’illecito, del sopruso, del sotterfugio? Insomma siamo davvero “capaci” di scegliere la strada spesso più ardua e meno agevole?

Solo in questo modo potremo forse essere all’altezza di quell’immane sacrificio, umano e morale.

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Franco Battiato era considerato da molti un Maestro. Di quelli veri. Che intuiscono e ricercano e vedono oltre. Per quel “magis“, il “di più” insito nella parola stessa “maestro”.

È stato un Maestro, quindi un riferimento, anche per me. Che da liceale lo cantavo e lo ballavo, intuendo e poco meno il suo sperimentalismo, sonoro e linguistico. Per cui il suo “Cuccurucucu paloma Ahia-ia-ia-iai cantava” pareva avanguardia in gocce di melodia, e il “Centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente” diventava un inno per non perdere la rotta, continuando a sventolare sul ponte “bandiera bianca”.

Solo in seguito compresi, almeno in parte, il senso profondo di permanenza di quel “centro” cantato e ricercato da Battiato, contiguo all’immanenza. E alla danza dei dervisci rotanti e alla poesia sufi e al mistico armeno Gurdjieff. E a quanto cerchiamo sempre, all’essenza a volte sfiorata, alla consapevolezza sometimes percepita spesso sopita.

Così ho colto, esplorando, altre ottave nella poesia cantata di Franco Battiato, dalle “correnti gravitazionali” de “La cura” alla ricerca dell’ “Uno al di sopra del Bene e del Male” in “E ti vengo a cercare”.

Per rifugiarmi poi, trovando balsamo consolatorio e spiraglio di orizzonte, in quei suoi versi della “Passacaglia” che recitano:

Vorrei tornare indietro
Per rivedere gli errori
Per accelerare
Il mio processo interiore
Ero in quinta elementare
Entrai per caso nella mia esistenza
Fatta di giorni allegri
E di continue esplorazioni
E trasformazioni dell’io“.

Grazie Franco Battiato per quanto hai cercato, consegnandoci mappe per leggere il mondo interiore, fatto di tracce minime ma preziose.

Come hai scritto nell’ultimo lavoro, “Torneremo ancora”. Da “migranti di Ganden / In corpi di luce / Su pianeti invisibili“. Quindi, Maestro, arrivederci. (Seppure sia “difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”… ).

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Quello arabo-israeliano è un conflitto endemico a cui il mondo sembra prestare un’attenzione ancora minore rispetto ad altri luoghi di scontro. Come se la tensione tra i gruppi armati di Gaza e Israele, con lanci di razzi da una parte e bombardamenti dall’altra, fosse connaturata a quella difficile convivenza.

A farne le spese è la popolazione civile e soprattutto i bambini, come denunciano le organizzazioni umanitarie che chiedono l’avvio di una tregua per fermare le ostilità. Con l’apertura di corridoi umanitari per salvaguardare i diritti dei più piccoli. Mai tanto invisibili agli occhi del mondo.

Forse perché i bambini di Gaza si nascondono, barricandosi dietro semplici porte di legno e cuscini di fortuna. Fino a scomparire del tutto. Coi loro giochi, coi loro sogni, coi loro corpi.

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Il film di Jean-Pierre Jeunet, “Il favoloso mondo di Amélie”, torna sul grande schermo l’11 e il 12 maggio per festeggiare i vent’anni dal suo fortunato debutto.

Perché la storia magica e delicata di Amélie Poulain continua ad incantarci, tanto più in questo “reo tempo”?

Forse perché racconta un mondo colorato e aggraziato, in cui grigiore e storture vengono sistemati da questa giovane donna dalla frangetta corta corta che crede nei sogni e nei segni.

Forse perché giriamo per due ore in una Parigi da cartolina, salendo con leggerezza le scale infinite di Montmartre per poi ristorarci al “Café des 2 Moulins” in attesa di un café au lait servito proprio da Amélie. Che forse si trasformerà anche per noi in messaggera d’amore.

Forse perché vogliamo ricordare come perdersi in quei piccoli e umanissimi piaceri, quali immergere una mano in un sacco di legumi, spaccare la crosticina di una creme brulée con la punta del cucchiaino o far rimbalzare sassi sull’acqua del Canal Saint Martin.

Provando la sensazione, come Amélie, di essere in armonia col mondo. In un istante lungo e perfetto.

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Un “Vecchio Nuovo Mondo” è la condensazione ossimorica di quanto tutti, in trepidante attesa, desideriamo.

Più attenzione e gentilezza in un mondo tutto verde. Con qualche oggetto e segno antico, a darci l’idea della continuità.

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Quando si chiede ai giovani, categoria sempre più vaga e lasca, cosa si celebri il “Primo Maggio”, una buona parte risponde “la Festa della Musica”, riferendosi al Concertone di Roma. Atmosfera quindi gioiosa, con rari richiami al lavoro. Una Festa per stare tutti insieme, con le note in sottofondo.

Un’altra quota pensa si tratti di un giorno festivo tout court, quindi una “Festa dal Lavoro” e non “Festa del Lavoro”. Del resto la sintassi è diventata da tempo un puro accidente.

Una parte di giovani, infine, anche il Primo Maggio corre disperata, da un quartiere all’altro delle città, a consegnare merci e cibo, senza pause per sé e alcun diritto per quella categoria di “nuovi schiavi” delle multinazionali che hanno triplicato il fatturato sulla pelle loro. Calpestando sempre più quanto raggiunto dai nostri nonni.

A questi giovani va il mio pensiero di solidarietà nella giornata odierna. Con la speranza che possano, un giorno vicino, cogliere il senso della dignità che il lavoro deve dare all’individuo. Con il rispetto dei diritti minimi e della sicurezza necessaria. Solo allora il “Primo Maggio” assumerà anche per loro un significato di festa.

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