È trascorso un anno, ma sembra un secolo, da quando tutto ebbe inizio.
È cambiata la nostra percezione del tempo, in continua tensione come un elastico, e quella dello spazio, in stretta torsione su inedite metrature.
I giorni si assomigliano l’uno all’altro, quando va bene. Le stanze diventano sempre più strette, quando va male.
Le notti si sono dilatate occupando spazi di luce. L’orizzonte, sempre meno visibile, si è ristretto. Fuori e dentro.
Mutate le relazioni. No abbracci, no baci. Sguardi fuggenti, parole nervose.
Schizoide il lavoro. In overdose bulimica tra pericolose consegne sul filo di un tempo immobile e compulsivo smart working di respiro orwelliano. Sempre che sia sopravvissuto, il lavoro.
La salute sospesa, tra paura e pericolo e azzardo e mancanza. Persino la lacrima, antico lavacro, rischia contagio. Quindi si asciuga. Involuzione meccanica. E triste.
La leggerezza un ricordo. La grazia un privilegio. La speranza una sfocata inquadratura.
Ma la primavera appare a portata di data. Seppur qualche nota risulti ancora stonata.