La parola, ormai evocatrice di scenari drammatici che si sperava superati e lontani, viene solo sussurrata. Ma ormai da qualche giorno in modo sempre più insistente. Associandola a cupi scenari di contagi esponenziali, sanità al collasso, rivolte sociali, economia in caduta libera.
I numeri, ci insegnano, non ci mentono. Eppure è come se volessimo convincere i nostri circuiti neuronali che “andrà tutto bene”, seppur quell’ottimistico motto sembri già appartenere ad un’altra era.
La classe politica d’altra parte, sempre più piccina e miope, cerca di nascondere sotto il tappeto di una comunicazione ormai stanca e non più credibile, la polvere attossicata di un contagio che non è solo più sanitario, seppur virale. È un contagio di rabbia, intolleranza, violenza, frustrazione, incertezza, stanchezza. In un crescere continuo, insieme ai numeri, di emozioni esplosive.
Sembriamo tutti più incapaci, ciascuno nel suo, a comprendere la necessità ormai stringente di rispettare le regole e accettare rinunce. Dalla mascherina indossata e bene, finalmente tutti, senza più farse teatrali, all’assenza della palestra e del cinema e del ristorante, perché in questo momento non è possibile. Perché la salute viene prima di tutto, nonostante. L’Ilva di Taranto è lì a ricordarcelo da anni.
È un sottinteso che le categorie più colpite debbano essere ristorate, e da subito. Ma non dimentichiamo quei settori che durante questa pandemia hanno raddoppiato quando non triplicato gli utili. Si chiedano anche a loro dei sacrifici per il bene dell’intero Paese, per il bene di noi tutti.
E se è necessario chiudere quasi tutto a chiave, lo si faccia. Prima che sia troppo tardi, prima che si debba buttare la stessa chiave.