È una questione di parole. Ma anche di fatti.
Il globale lockdown ci ha imposto la cattività, sperimentando così la condizione di animali in gabbia.
Una volta tornati, almeno in parte, liberi ci stiamo scoprendo meno tolleranti e comprensivi, più diffidenti e suscettibili. Spirito di adattamento quasi azzerato, capacità relazionale non pervenuta. In una parola siamo diventati più cattivi. Già.
Ma i nomi sono conseguenti alle cose, come affermavano gli antichi.
Non è un caso che il “captivus” fosse originariamente il “prigioniero”. Che in condizioni di sottratta libertà diventa, suo malgrado, “cattivo”. Quando non lo si voglia considerare già a priori cattivo per il fatto stesso di essere prigioniero (possiamo dimenticarci dell’incredibile caso George Floyd?).
Ma la domanda è: chi rende il prigioniero tale?
Ps: purtroppo con la pandemia è anche aumentato il tasso di superbia scientifica nelle categorie più disparate: politici (proprio mai sforzarsi di pensare al bene comune?), tenori (e dedicarsi semplicemente al bel canto?), gente comune (che dire delle feste organizzate solo per dimostrare che il virus non c’è?), e persino alcuni virologi per i quali i contagiati non sono malati (sob!) se non all’1%. A quando l’amena negazione della terrestre rotazione?