Ad un mese dalla mia avventura in terra newyorkese, tento di capire quanto abbia mutato il mio paesaggio interiore muovere i primi passi nel Nuovo Mondo.
Cosa ha significato per me mordere, gustare, digerire, assimilare la Grande Mela?
È stato l’incontro con un mondo in continuo movimento. Rigenerante però, mai delirante. Per la sensazione che tutto può accadere, in qualsiasi momento. E che ogni cosa forse è possibile.
Provando l’ebbrezza di sentirsi al centro del mondo insieme a chi ti sta intorno, in completa integrazione e con un culto speciale per la libertà. Senza mai invadere l’altro. Usi, cibi, costumi, parole a convivere pelle a pelle, in un energetico melting pot.
Un luogo in cui è forte l’esperienza di straniamento, quasi vivessi ogni ora su un set cinematografico. Che è pur vero, perché in ogni dove vedi pellicole già viste sbobinarsi: “Manhattan”, “Taxi driver”, “Harry ti presento Sally”, “Colazione da Tiffany”, “C’è posta per te”, “Il maratoneta”, “C’era una volta in America”.
Come se, anche essendoci dentro, in New York City, non ci credessi mai del tutto. Lo descrive bene il giornalista del “New Yorker” Adam Gopnik: “Perfino quando ci stabiliamo qui a New York, in qualche modo questa città sembra sempre un luogo a cui aspirare”.Tra grattacieli, hot dogs, frenesia, potenzialità.
Uno stato della mente, come ho letto un giorno in un caffè. Uno skyline di energia emotiva.