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Archive for ottobre 2018

Nonostante il nostro essere Stivale, stiamo facendo acqua. In ogni dove. Da Nord a Sud, da Est a Ovest, isole comprese, una pioggia battente e un forte vento imperversano sulla Penisola, con caduta alberi, frane, mareggiate, acqua alta. E purtroppo anche vittime.

Un territorio, quello italiano, ormai fragile, depauperato, preda dell’incuria quasi totale. Con la politica assente su tale fronte, perché intenta a muovere i suoi passi, peraltro maldestri, tra TAV e TAP. Grandi Opere, e oneroso denaro pubblico, senza porre mai in atto una costante manutenzione del patrio suolo e delle sue infrastrutture.

Il risultato? Si continua a fare acqua da tutte le parti.

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In questi giorni gli abitanti, già ex, delle case site sotto i resti del ponte Morandi di Genova sono chiamati ad un’incombenza enorme e triste. Decidere quali oggetti della propria casa, quindi della propria vita, portare via. E farlo in due ore, stipando i ricordi in cinquanta scatoloni.

Ho quindi provato a fare questo esercizio mentale, un po’ buddista un po’ masochista, di pensare per un momento di essere in quella disperata e dolentissima situazione. Di scelta. Tra gli oggetti d’affetto e d’uso e d’abitudine. Tra le cose nostre, che ci rappresentano e ci confortano. Presente e passato. Necessità e consolazione.

E comprendi, se ancora ce ne fosse bisogno, che la vita è accumulo solo per un periodo. E poi, di necessità e per tutti, sottrazione. Di stati, luoghi, persone. E persino oggetti, che di tutto ciò sono anche simbolo. Di cui abbiamo infinito bisogno.

La nostra privata coperta di Linus. Che, seppur consunta, è per ciascuno affettuosa.

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Photo by Ester Maero – “A riveder le stelle”

Un’emozione al contempo plastica e mistica quella di ritrovare, e con maggiori luci, le geniali geometrie di Guarino Guarini nella Cupola barocca che custodiva la Sacra Sindone prima del terribile incendio scoppiato nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997.

Un plauso a tutti coloro che vi hanno lavorato con dedizione e professionalità, applicando avanzate soluzioni tecniche per riportare infine la Cupola torinese “a riveder le stelle”.

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Gian Marco Montesano – Drappellone Palio Straordinario di Siena, ottobre 2018

Sensazione di straniamento.

Siena, Piazza del Campo. Tufo ovunque, come solo nei giorni di Palio, quelli caldi, di inizio luglio e mezzo agosto. Con la luce abbacinante durante il giorno e lunghissima al momento della corsa, coi cavalli tra i canapi a sfidare l’arrivo del crepuscolo arancio.

Ma oggi la luce appare sfumata, col sole che sembra in anticipo sul proprio sonno. E gli abiti degli spettatori a regalare meno pelle all’aria. Con qualcosa di straordinario ad abitare la Conchiglia.

Il Palio di Siena ad ottobre. Per celebrare il centenario della fine della prima guerra mondiale. Come racconta il drappellone, firmato dall’artista torinese Gian Marco Montesano.

Un soldato, un fante del Piave, che porge dei fiori ad una ragazza baciandole la mano. Nessun campo di battaglia, solo gentilezza e bellezza. Quella deturpata e dimenticata dalla violenza del conflitto.

Di ogni conflitto.

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Amo Pippi Calzelunghe. Da sempre.

Per quel suo modo di vivere in piena libertà, eppure con un ferreo codice etico. Aperta al mondo e al nuovo, ma capace di isolarsi per interi giorni. Energia vitale allo stato puro insieme a velate malinconie. Frenesia e silenzio. Fantasia e meditazione. Coraggio e indipendenza.

Una casa nel bosco, appena fuori dal villaggio, la mitica “Villa Villacolle” in cui regna un confuso e allegro disordine. Ad accogliere il viandante un profumo di biscotti appena sfornati, un cavallo a pois e una simpatica scimmietta, l’amato signor Nilsson.

Giornate ricche di avvenimenti quelle di Pippi, che vive sola ma ha due amici, i fratelli Tommy e Annika, che la adorano per quel suo modo sfrontato, insieme serio e leggero, di affrontare la vita.

È stata la mia compagna preferita di giochi nell’infanzia, il mio esempio di emancipazione nell’adolescenza, la mia filosofia di vita poco dopo. Al punto da sentirmi sempre un po’ Pippi Calzelunghe.

Forse è anche per questo che il suo sessantesimo genetliaco (nell’edizione italiana del libro di Astrid Lindgren) mi sorprende.

Perché ci illudiamo che il Tempo non sfiori i nostri eroi. Lasciando a noi umani bazzecole e quisquiglie come i compleanni.

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Il caso Cucchi visto da Makkox su “Il Foglio”

Come ha detto Ilaria Cucchi, un muro è crollato. Quello fatto di omertà, silenzi, bugie, depistaggi. E pestaggi. Ora non solo evidenti ma anche confessati.

Cosi la storia di Stefano Cucchi diventa paradigmatica di tante ingiustizie. Una storia italiana. In negativo.

Ma una storia italiana anche in positivo. Perchè ci ricorda con evidenza che ci sono persone che con determinata ostinazione lottano affinché la verità torni a galla dal fondo oscuro delle nefandezze.

In questa storia hanno il nome di Ilaria Cucchi e della sua famiglia che, insistendo nella ricerca dei colpevoli, ci fanno ancora credere nell’idea che la giustizia umana sia infine possibile.

La speranza è che si giunga a vedere chiaro anche per chi continua ad aspettare intorno ad altri nomi, protagonisti, loro malgrado, di vicende ancora oscure. Giulio Regeni e Ilaria Alpi sono due dei tanti nomi che ancora attendono verità.

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Cinquantacinque anni fa, il 9 ottobre 1963, alle ore 22.39 una frana enorme si staccò dal monte Toc, “marcio” in friulano, precipitando sul bacino artificiale sottostante e provocando un’onda di 270 milioni di metri cubi di rocce, detriti e acqua che travolse i comuni di Erto e Casso e Longarone. Quasi duemila vittime e un paesaggio geografico cancellato.

Una tragedia annunciata, che si poteva evitare. Perché i rischi di quella costruzione avveniristica, la diga del Vajont, si conoscevano. Esattamente come quelli del Ponte Morandi di Genova.

Disastri già scritti, in nome del profitto economico. Senza tutela alcuna della vita umana e del suo naturale contorno.

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Giocare e creare con la sabbia fa bene. A tal punto da diventare una terapia, la SandPlayTherapy. Che non utilizza paletta e secchiello bensì “quadri” realizzati con miniature tridimensionali disposte in modo libero in una sabbiera. Al fine di leggerle per aiutare le persone, specie quelle con difficoltà comunicative, a ritrovare il benessere psicologico.

Perché, come diceva Carl Gustav Jung, “spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente”.

Insomma, un piccolo giardino zen per raccontare le proprie emozioni. Antico rituale buddista per ristabilire la calma. Tracciando segni per ritrovare i propri passi.

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Nella sua amata Provenza, già vestita dei colori d’autunno, si è spenta a 94 anni la voce di Charles Aznavour, lo chansonnier per antonomasia. Con oltre trecento milioni di dischi venduti in tutto il mondo.

Una voce unica e inimitabile, con quel timbro roco che lo rendeva immediatamente riconoscibile e che era dovuto, strano il destino, a problemi che aveva avuto da bambino alle corde vocali. E a vent’anni l’incontro fondamentale, quello con Edith Piaf che lo scopre e lo porta in tournée.

Profondamente francese ma legatissimo alle sue origini armene, era conosciuto ovunque, anche perchè cantava in ben sette lingue. Canzoni nelle orecchie di tutti, da “Quanto è triste Venezia” a “L’istrione”. Indimenticabile, persino per le generazioni più giovani, il suo brano “She”, colonna sonora del film “Notting Hill”.

Voglio morire vivo“, amava dire. Aggiungendo che avrebbe desiderato cantare fino a cento anni. Ci è andato molto vicino.

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