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Archive for giugno 2017

Il 28 giugno 1867 nasceva in quel di Girgenti colui per cui la verità è quella che vi pare. Luigi Pirandello.

Ha dato senso al non-senso, dando voce ai personaggi prima ancora che gli stessi avessero un autore. E facendo meditare un uomo sulla propria tomba mentre è ancora vivo e vegeto, seppur privo di identità.

Ha scardinato le categorie positivistiche, così che la certezza diventasse diafana e il dubbio una sicurezza cristallina. Al punto da sentirci “uno, nessuno e centomila”. Confusi, e quasi mai felici.

Ha raccontato la follia come possibile affaccio su un mondo altro, forse più autentico. Con le maschere che si denudano per compiere l’ultimo svelamento. O forse il primo di un’altra serie.

Potremmo noi dirci “uomini”, senza Luigi Pirandello? Ciascuno a suo modo, quasi sicuramente no.

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Ottanta, in modo alternativo. Come é sempre stato lui: garbato, ironico e appunto “alter”. Così Renzo Arbore augura a se stesso un “altro” compleanno. In linea col suo navigare.

Primo disc jockey italiano, geniale scopritore di talenti, inventore di nuove e surreali formule radiotelevisive. Sempre in direzione alternativa, quella non contemplata dai più.

Proprio i nomi dei suoi successi raccontano la sua scelta “altra”: “L’altra domenica” , “Quelli della notte” , “Indietro tutta”. Andando in realtà molto più avanti degli altri. Con sguardo altrove, sulle note del suo amato swing.

Al re della notte, auguri di un “altro” compleanno.

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“Versicoli quasi ecologici” di Giorgio Caproni

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

(1972, dalla raccolta Res Amissa)

Lo rivedo ancora, ora come allora, il “mio” Giorgio Caproni. A consegnarmi, con grazia lieve, il Premio Montale per la tesi di laurea. Uno dei miei poeti guida. Sottile e all’apparenza fragile. In realtà delicato, ma di tempra forte, livornese. Sguardo nostalgico, in parte languido. Gli occhi si soffermavano spesso su qualcosa di lontano. Temporalmente lontano. In avanti. Quell’antivedere del poeta, che guarda quel che poi noi vedremo.

Così nella raccolta “Res amissa”, in cui “la perduta cosa” è quella che sfugge. Perché impossibile a dirsi, perché impossibile a trattenersi. A volte col nostro, di noi umani, concorso di colpa.

Ecco allora l’imperativo dei suoi ecologici “versicoli” a non uccidere le molteplici forme di natura, a non soffocare le plurime voci di vita. Perché anche di questo siamo fatti noi umani. Erba, acqua, libellula, aria verde. Da non oltraggiare. Semplicemente, senza profitti, da amare.

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È la seconda primavera più calda dal 1880.

La calotta polare perde intere porzioni di ghiaccio.

Lo zero termico supera l’altezza del Monte Bianco.

La desertificazione tocca aree nuove.

Gli incendi dovuti ad autocombustione aumentano.

E noi umani? Imbevuti di pensiero magico, ci autoconvinciamo che prima o poi la febbre passerà.

Senza cure. Senza troppi pensieri. Pur sventolandoci sempre più.

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Che un incidente possa accadere sta nell’ordine delle umane cose. Altro è quando le responsabilità istituzionali sono lapalissiane.

Può una costruzione civile non avere i requisiti minimi di sicurezza solo perché edilizia “popolare”? Gli estintori antincendio non dovrebbero essere una salvaguardia per tutti? Le scale di sicurezza, nel mondo 2.0, sono ancora un optional? Possibile che la ristrutturazione pubblica di un edificio anni ’70 preveda essenzialmente il posizionamento di pannelli in plastica sulle pareti esterne?

Domande che sembrano riguardare il nostro piccolo e antico mondo italico, che si sa, ce lo diciamo spesso, fa acqua da tutte le parti. Ma forse meno che altrove.

Perché guardando quel palazzo in fiamme, la Grenfell Tower, si fa fatica a credere che sia nella moderna e futuristica Londra. Tanto più che nel suo Dna la capitale britannica porta inscritto il Grande Incendio del 1666 che distrusse quasi per intero la città. Sob!

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La presunzione si autorigenera col potere. Ma porta con sé un effetto collaterale, il passo troppo lungo.

Convinto di essere politicamente forte, il potente di turno vuole dimostrarlo con l’asso pigliatutto. E il nostro ex premier fiorentino ne è un esempio da manuale.

Ora è il turno di Theresa May, premier britannica. Non paga della sua maggioranza, voleva di più ed è scesa in battaglia. Presumendo di uscirne rafforzata. Di fatto ne esce indebolita, pur avendo vinto.

Come Pirro,  con la sua vittoria. Perché la storia, pur non essendo sempre magistra, va tenuta presente. Insieme ad un rigenerante bagno di realtà e di umiltà.

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Nel tempo 2.0, quello social & terrorist, un evento pubblico porta ormai con sé, sottotraccia, un’ansia strisciante per qualcosa di pericoloso che può accadere. Così qualsiasi rumore o voce o spostamento, seppur minimo, deflagra su quella paura sottile trasformandola immediatamente in panico. L’effetto domino fa il resto. Fuggi fuggi scomposto, e l’uomo si fa mandria. Corre senza fermarsi, travolgendo tutto ciò che incontra. Compresi i suoi simili.

Così è avvenuto nel cuore di Torino, di fronte ai maxischermi posizionati in Piazza San Carlo (scelta discutibile) per la finale di Champions, Juventus versus Real Madrid. Oltre 1500 tra contusi e feriti, di cui alcuni gravi. Il pensiero va ad un’altra finale bianconera di Champions, allo stadio Heysel di Bruxelles e al suo tributo di sangue.

Ma nel tempo 2.0 social & terrorist le notizie globali si spostano velocemente e il Big Eye è sul London Bridge. Ancora un attacco terroristico nella capitale britannica. In un “normale” sabato sera, terrore tra strade e ristoranti, con accoltellamenti, urla, sbigottimento, vittime, feriti, polizia in assetto di guerra.

Così la nostra angoscia si rinforza. A tal punto da farci tracimare anche da soli. Ad ogni frullo d’ali.

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Il video comincia dal finale di “Come“, con i palloncini che scoppiano. In pura leggerezza.

E Jain, nello spettacolare video “Makeba“, ricomincia a cantare e giocare con i suoi effetti ottici stile Escher, questa volta omaggiando l’Africa di Miriam Makeba. Facendola sua. Con simboli, giraffe, grafismi, ballerini e se stessa. E un messaggio, neppure troppo subliminale, su quello che è stato l’impegno politico della cantante sudafricana contro il regime dell’apartheid: “Voglio vederti cantare, voglio vederti combattere, / perché tu sei la vera bellezza del diritto umano“.

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