Il 19 settembre 1996 usciva un album che avrebbe fatto parlare a lungo di sé. Per le tematiche affrontate, per le lingue usate, per la ricerca sonora che si apriva a rotte mediterraneo-balcaniche e sudamericane.
Talmente avanti allora da poterlo comprendere appieno, e ancora non del tutto, solo ora. A vent’anni di distanza.
E così Fabrizio De André sceglie il racconto delle “anime salve”, gli “spiriti solitari” liberi per scelta, facendo un elogio della solitudine: “quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addirittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni, e, siccome siamo simili ai nostri simili credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri.”
E così Faber ci regala ritmi e storie, costringendoci a “guardare” intorno, a respirare il mondo. Tutto: dalla transessuale brasiliana Fernandinho che diventa un’autentica Prinçesa correndo “all’incanto dei desideri“, al popolo Rom Khorakhané con il loro culto di assoluta libertà che li fa “essere vento“. Con le donne e i loro voli, come Nina sull’altalena o come una colomba, Â cúmba, la ragazza che lascia il nido per sposarsi. Un atto d’amore per le minoranze, una Smisurata preghiera per invocare la salvezza di chi sta al margine “col suo marchio speciale di speciale disperazione“. Quelli al confine, che “dopo tanto sbandare è appena giusto che Fortuna li aiuti come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere“.
Possiamo non pensare Fabrizio De André un Poeta?