Non ho ancora visto l’ultimo film di Bernardo Bertolucci “Io e te”. Per ora è solo la scena del ballo tra fratelli in una claustrofobica cantina ad aver mosso in me questa riflessione.
Saranno gli occhi del giovane protagonista che sembra guardare il cielo in un luogo che per definizione è chiuso e buio. Che poi è lo sguardo ancora incantato, cioè senza anagrafe, del maestro Bertolucci.
Sarà la musica struggente di David Bowie che racconta la solitudine di tutti, di sempre. Con parole che si incidono nelle tracce mnestiche di ciascuno (“Dimmi ragazzo solo dove vai, / perché tanto dolore?“).
Saranno i movimenti di macchina a carrellate che ti fanno girare la testa quasi fossi un po’ sbronzo come i protagonisti. Fino a diventare loro. Vedendo in quella cantina un cielo infinito. Oltre le pareti di Gino Paoli.
Una barriera materiale, un dato fisico, il chiuso di un locale: da qui scaturisce la ricerca di una dimensione infinita, quella di cui portiamo le “tracce” dentro l’anima.
Le tue riflessioni, cara Es, mi portano a pensare alla solitudine, soprattutto dei giovani di oggi, che seguono la loro traccia di cielo inebriandosi con l’alcool e le pasticche nel buio assordante di un locale chiuso.
Anche se in questo specifico caso la cantina è illuminata dal cielo di sentimenti inaspettatamente recuperati. Quindi il buio di questa cantina non è affatto assordante ma rigenerante. Chissà perché facciamo sempre più fatica a cogliere l’esigenza di passaggi temporali lenti e solitari. Al punto che il protagonista sceglie volontariamente e scientemente di “chiudersi” in cantina, fingendosi in un luogo socialmente apprezzato per la gestione del proprio tempo libero (la settimana bianca in montagna), per essere davvero e finalmente libero.
A presto, Ester.
Forse perchè, cara Es, siamo troppo condizionati dal tipo di vita roboante che svolgiamo, al punto da non rendersi più conto della bellezza della solitudine e del rigenerante silenzio….
Ciao, buona giornata: