E’ stato un vero Maestro Monicelli, nel farci ridere facendoci pensare. Costringendoci a guardare in faccia i nostri fantasmi, mettendoci alle corde di fronte alle nostre responsabilità. In modo acuto, intelligente, a tratti cinico. Ma sempre onesto. Chissà cosa direbbe dell’Italia di questi ultimi mesi. Forse quanto aveva detto in tempi non sospetti: “Siamo senza speranza. L’aveva già spiegato Pasolini: la speranza è una trappola, usata dal potente politico e religioso per ingabbiare i poveretti, con promesse di futuro benessere o di paradisiaci aldilà. Non c’è alcuna speranza di riscatto per il Paese. Il vero problema non è tanto la classe politica, che è una minoranza, ma questa generazione, che manda giù tutto senza protesta, cullandosi sulle promesse. È tutta una generazione che va cambiata, anzi rigenerata con urgenza.“
E a proposito di rivoluzione ha deciso di dare l’addio alla vita, anche lui come il regista Monicelli, Lucio Magri, fondatore de “il manifesto”. Anche a lui era diventato insopportabile vivere, anche lui lucido nell’atto estremo, anche lui una vita spesa per gli ideali in cui credeva. Già, “ideali”, parola che appare desueta, diafana, quasi intraducibile nella lingua di oggi. In cui l’oggi nasce già orfano del domani. Quel domani che anche Magri ha visto scomparire dal proprio orizzonte. Non è un caso che il suo ultimo libro, “Il sarto di Ulm”, abbia nel titolo il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Come lui Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e quello degli ultimi anni gli è sembrato raccontare solo il fallimento di un’utopia. Così ha deciso di tagliarsi le ali da sé. Resta l’esempio della forza di quegli ideali, anche controcorrente. Una storia a sinistra, ma fuori dagli schemi.