Non sono mai entrata in un giardino zen. Però uno l’ho visto.
Mi spiego meglio. La differenza è quella che passa tra entrare in mare e vedere il mare. E’ appagante vedere il mare, perché un po’ della sua acqua negli occhi ti entra, così come il suo odore mentre scruti l’orizzonte un po’ ti permea. Ma, signori, entrare in mare è tutta altra storia, perché è come entrare in un pezzo di cielo facendone parte. Fine della contemplazione, inizio dell’azione.
Così in un giardino zen. O almeno penso. Nel giardino zen, a differenza di quello giapponese, l’acqua è raccontata dalla sabbia, pettinata a cerchi concentrici e sinusoidi, movimenti metaforicamente prodotti dalle rocce, che rappresentano gli uomini. Si respira pieno silenzio armonico a guardare un giardino zen. Almeno così mi è successo di fronte a quello posto all’ingresso del Mao (Museo Arti Orientali) di Torino.
Immagino che non sia permesso calpestare un giardino zen. A meno di essere il prescelto per disegnare la sabbia. Forse anche per questo associo il giardino zen al mare. Quando nei tramonti d’estate in certe spiagge il bagnino comincia a rastrellare, disegnando armonicamente la sabbia.
In quel momento, osservandolo, non posso esimermi dal pensarlo maestro zen che sistema con cura quel giardino di sabbia.