Lo so. Non ho ancora detto nulla a tal proposito. Ma di solito non scrivo sull’onda dei fatti mentre stanno accadendo. Ho bisogno di far decantare gli eventi. Sempre. Forse illudendomi che prendano una forma compiuta, e che da soli possano esprimersi.
Ma intorno ai fatti di Libia mi sono resa conto di aspettare a dipanare il filo del racconto e della riflessione non per questioni di “cantina”, per riuscire così a distinguere “le note di testa”, bensì per una sensazione invasiva e destabilizzante di disagio. E l’impressione è che questo disagio lo proviamo in diversi, perché ovunque giriamo il “vaso Libia” la sbrecciatura è evidente.
Il vocabolario, alla parola “disagio”, recita: “condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute”. Perché, ammettiamolo, è davvero “sgradevole” (ma resta un eufemismo, come “disagio”) bombardare chi fino all’altro giorno veniva omaggiato a suon di baci, tappeti rossi e ragazze (forse secondo l’antico costume per cui all’ospite, in quanto sacro, si fa dono anche della propria donna). Eppure era già dittatore (ma la real politic ci ha abituati ad intrattenere rapporti con tutti perché “gli affari sono affari”…) , e mai illuminato se non dall’energia del proprio gas e petrolio, che arriva però anche nelle nostre italiche case (ahi, il disagio…) di personcine per bene dedite alla democrazia. E che dire degli investimenti del colonnello direttamente nei forzieri di una delle nostre più antiche Casse di Risparmio? “Pecunia non olet”, dicevano gli antichi. Solo che qui è il caso di turarsi il naso per afrori di varia provenienza.
Un organismo internazionale che mostra sempre più il suo lato debole in caso di decisioni urgenti. Potenze che si sentono presuntuosamente migliori di altre, a tal punto da sentirsi guida per spedizioni di non ben chiaro ingaggio e obiettivo. Una guerra approntata per il rispetto di una no fly zone che vede il cielo di Libia paradossalmente mai tanto trafficato. E intanto a terra civili che, mentre lottano orgogliosamente e tenacemente per la libertà del loro Paese, rischiano però a destra e a manca, perché il raiss li stermina quando non li usa come scudi umani, e dall’alto può arrivare la morte, oltre che la liberazione, perché le bombe, si sa, proprio intelligenti non sono. Che brutto affare la guerra. Che bruttissimo affare la guerra di Libia.
E siccome ovunque mi giri sento che facciamo danno, anche solo con un’opinione, mi è altrettanto difficile guardare a Lampedusa e al mare di Sicilia, dove ad essere politicamente corretti è giusto e sacrosanto tendere la mano ai disperati in arrivo dal mare, ma il nostro piano qual è? Solo aspettare che il mare ingrossi, la guerra finisca, Lampedusa si sposti? E la girandola di parole in questi giorni, alla sottile ricerca di distinguo tra profughi e clandestini, rifugiati politici e possibili cellule terroristiche?
Non riesco a trovare il capo della matassa-riflessione da dipanare. Non ci riesco proprio. Forse ho ancora necessità di lasciar decantare i fatti. Anche se qui bisognerebbe agire, con avvedutezza e determinazione. E forse con una visione un po’ più prospettica. Ma questo è il lavoro della politica, da sempre. Almeno fino a ieri. Oggi altri compiti, meno prospettici e più privatistici, incombono. Anche per questo provo disagio.
Ecco perché fino ad oggi dell’affaire Libia non ne avevo ancora parlato.
E comunque il disagio, a riguardo, continua ad abitarmi.