Sono trascorsi 12 giorni dal “doppio T” (Terremoto & Tsunami) che ha colpito con inaudita violenza il Giappone, sconquassandolo. Numeri e parole purtroppo hanno la triste funzione umana di contare/raccontare l’evento. Tutto risulta tanto, troppo: 15.000 le vittime ad oggi, 21.000 case distrutte, 500.000 sfollati. Un disastro immane, una catastrofe senza precedenti, un’apocalisse, o meglio l’Apocalisse, perché ti puoi aspettare solo Quella, non una di tante. Con la magnitudo 9 Richter liberata dal terremoto giapponese è mutata persino la morfologia delle coste di quell’area, e l’asse terrestre si è spostato. E su tutto, che ormai è poco, il potenziale, drammaticamente incombente, di un’ulteriore tragedia, l’incubo della radioattività, nemico reale seppur invisibile, anche se non completamente, visto che le esplosioni nei reattori della centrale di Fukushima, con le conseguenti nubi tossiche (e Chernobyl, col suo carico di vittime, dopo 25 anni è tornata presente col proprio fantasma) rimandano comunque in tutto il genere umano ad una memoria collettiva che ha tatuato in sé il “Fungo” che si alza verso il cielo, soprattutto in quell’area geografica del mondo.
Di fronte a tanta incontrastata potenza ricominciano le riflessioni di sempre, di ogni uomo che si scopre/riscopre “piccolo” in confronto ad una Natura “indifferente”, quando non “maligna”, nei confronti del genere umano. E Leopardi è lì, a soccorrerci spaventandoci con l’altezza dei suoi versi. “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo” risponde la Natura, nel “Dialogo della Natura e di un islandese”, alle domande smarrite di un uomo, di noi tutti. E il paragone tra noi e le formiche, raccontato ne “La ginestra, o il fiore del deserto”, si rivela una visione lucida, seppur amara, dell’incombente “piede” della Natura sulla “testa” dell’uomo: “Come d’arbor cadendo un picciol pomo / […] d’un popol di formiche i dolci alberghi, / […] schiaccia, diserta e copre / in un punto; così d’alto piombando / dall’utero tonante scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina / […] / le cittadi che il mar là su l’estremo / lido aspergea, confuse / e infranse e ricoperse / in pochi istanti.”
Leopardi, scrivendo quei versi, andava con la mente alla distruzione di Pompei per l’eruzione del Vesuvio, in cui, come sempre, gli uomini diventano mattoncini Lego che “Qualcuno/Nessuno” si “di-verte” a “dis-ordinare”. Cioè “pone fuori rotta”, lasciando unicamente “caos”. Forse è il grido disperato che Leopardi lancia in “A Silvia” a farci sentire un “trucco” sotteso alla vita stessa: “O Natura, o Natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?”.
Noi, “quei ‘cosi / con due gambe’ che fanno tanta pena…”, come scriveva Gozzano, ci inorgogliamo troppo e troppo in fretta (“con forsennato orgoglio inver le stelle”) delle nostre conquiste, della nostra avanzata (o deriva) tecnologica, cercando di “piegare” la Natura, con dighe/sbarramento, edifici a prova di, uso/abuso del nucleo, e di anticiparla con un controllo in cui nulla sembra sfuggire, tutto appare sicuro, e poi… E poi siamo costretti a piegare il capo superbo di fronte all’onnipotenza del fenomeno naturale, alla sua incoercibilità, come già la ginestra sa di dover fare: “E piegherai / sotto il fascio mortal non renitente / il tuo capo innocente.” Ed è proprio “il fiore del deserto” a darci il messaggio pro-positivo su cui ricostruire, non solo il paesaggio geografico-civile ma anche quello umano in ciascuno di noi, una “mappa-valore” cui aggrapparci in tanta disperata devastazione, che si rivela essere la solidarietà tra gli uomini: “Nobil natura è quella / che […] tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor porgendo / valida e pronta e aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune.”
La foto del bimbo giapponese a mani alzate senza protezione, di fronte ad un agente specializzato protetto con tuta e maschera che controlla il livello delle sue radiazioni, ci racconta con muta e disperata rassegnazione la disarmata fragilità dell’uomo davanti alla furia capricciosa della Natura.
Sicuramente il problema delle centrali nucleari giapponesi colpite dal terremoto è grave ed avrà i suoi tumorali strascichi. Io però mi domando perchè, come sempre, molti soffrano del “mal della memoria”. Oggi tutti pontificano e te(rr)orizzano sulle nefaste ricadute della radioattività sul cibo/acqua/aria, inizierà l’ennesimo periodo di paranoia. Ma nessuno, men che mai sui vari mezzi di informazione, ricorda che dal 1945 al 1998 sono stati effettuati più di 2000 test nucleari in tutto il mondo. Sono stati fatti esplodere nel terreno, nell’aria e in mare, l’equivalente di 35.000 (35.000!!!!!!!) bombe atomiche sganciate su Hiroshima e tutto questo fallout nucleare ce lo siamo mangiato/respirato/bevuto e continuiamo a farlo ancora oggi. In quegli anni sono state disperse nell’ambiente più di 4 tonnellate di plutonio ed uranio. Eventi disastrosi come Chernobyl o Fukushima sono sì gravissimi, anche perchè mediaticamente molto evidenti e utili, ma in confronto al passato molto vicino, sono solo rumore di fondo. E’ molto più dannosa l’ipocrisia.
Siamo proprio “quei ‘cosi / con due gambe’ che fanno tanta pena”… Es.
Osservando il risveglio della primavera, i primi fili teneri d’erba , i fiori che sbocciano al primo pallido tepore , si pensa alla meraviglia del creato,al miracolo della vita racchiuso in ogni piccolo essere vivente, si medita sulla perfetta organizzazione della Natura che da millenni segue il suo ciclo costante di nascita, evoluzione, dissoluzione, si medita al contempo sulla fragilità degli esseri viventi e sulla forza indomabile di molti fenomeni naturali ,e ci si chiede: perchè la Natura fa del male all’uomo? E’ la sua risposta, la rivolta incontrollata contro l’umanità che da tempo esercita la sua violenza contro il mondo. La “ratio”, la civiltà, la cultura che distinguono l’uomo dalle bestie nella pretesa di dominare la natura , l’hanno torturata, oppressa, distrutta, contaminando l’ambiente, iniettando veleni nei meandri del suolo da cui si sprigionano esalazioni mefitiche che, un po’ per volta, ci asfissiano.
Questo mondo è davvero ormai “un atomo opaco del male”,senza speranze,sembrerebbe. Ma questo mondo malsano ha un’anima, una grande anima, porta in sè un respiro divino, catartico.
Grande l’idea di Leoprdi della “solidal catena”,ma insufficiente senza la Luce che entra in ogni spiraglio portando una nuova vita. L’uomo ,da solo, non si salva. L’uomo, fragile “canna pensante” deve volare in alto, per salvarsi.
Ciao Es. S.
All’indomani dell’apocalisse del Giappone siamo colpiti dalla dignitosa compostezza dei Giapponesi che continuano la loro vita con forza e caparbietà (in quindici goirni è stata già ricostruita un’autostrada!) Colpisce l’immagine delle file ordinate e calme delle persone in attesa di farsi esaminare il livello di radiazioni che li hanno irradiati: bambini, adulti ,anziani, uniti da un forte senso di solidarietè.
Colpisce il fatto che in mezzo alla devastazione provocata dallo tsunami , alle città semideserte per la paura di contaminazione non si siano verifichino atti di sciacallaggio.
Tutti i gesti di quel popolo ci colpiscono. Al contrario, di fronte alle tragedie di casa nostra (terremoti, alluvioni) si crea panico, reazioni di rabbia, disordine, polemiche; il carattere italico, sanguigno, emerge in queste occasioni, traducendosi in comportamenti irrazionali.
Ma dove sta la differenza?
Ho trovato una spiegazione interessante nell’articolo di Boris Biancheri (La Stampa – mercoledì 16 febbraio) che identifica l’origine della ” determinazione fiduciosa” di questo popolo in ” un aspetto della cultura profonda del paese e in un principio che sin dalla prima infanzia giunge nell’animo di ogni bambino. Il principio, cioè , che vi sono infinite cose desiderabili e importanti come il denaro, il potere e il successo che tutti cercano di raggiungere, che taluni raggiungono , ma che possono poi abbandonarci a seconda della fortuna e delle circostanze senza che ciò muti la nostra vera natura.
Che ci sono invece valori che ci appartengono indissolubilmente, senza i quali non saremmo persone umane, certo non dei vari giapponesi[….] Si tratta in sostanza di una specie di codice morale dei cavalieri dell’età feudale che, non scritto ma passato di bocca in bocca, sopravvive nel mondo di oggi: vi si fondono i concetti di consapevolezza di sè, la lealtà, la rettitudine, dignità, rispetto. Importante- diceva un saggio- è sapere quando è tempo di morire, e farlo con la stessa grazia. Questo concetto in giapponese è riassunto nel termine di ” bushido”.
Ma anche nella nostra tradizione culturale troviamo la definizione di fortuna come insieme di eventi capricciosi che ostacolano la vita dell’uomo e al contempo la risposta determinata alle bizzarrie del caso , fatta di ingegno e di virtù . Forse, a ben pensarci, il problema per noi italiani, esseri forniti di ingegno, sta nella mancanza di “grazia”.